Accoglienza, a rischio
il buon lavoro fatto

La politica governativa sull’immigrazione ha assunto un connotato schizofrenico. Da una parte il meritevole e necessario salvataggio delle persone nel Mediterraneo, che ha permesso di contenere il numero dei morti in mare (comunque alto: oltre 3 mila da inizio anno) e di consegnare alla giustizia decine di trafficanti, che caricano su imbarcazioni precarie un numero crescente di «passeggeri».

Dall’altra però la politica dell’accoglienza, a fronte di arrivi che non diminuiscono in maniera netta, latita nel definire un modello che non sia più emergenziale. Solo il 25% degli 8 mila Comuni dà ospitalità e così l’onere cade su una minoranza di città e paesi. Palazzo Chigi sta lavorando a un nuovo piano, d’intesa con l’Anci (l’associazione dei Comuni) per correggere questa iniqua distribuzione. Nell’attesa di novità, intanto vanno trovati nuovi posti per l’accoglienza.

La Prefettura di Bergamo il 2 settembre scorso ha emanato una circolare (ne diamo conto nelle pagine di cronaca cittadina) che riduce drasticamente i tempi di permanenza nei centri, distribuiti sul nostro territorio attraverso il modello della cosiddetta «accoglienza diffusa» (prevede l’ospitalità di poche persone per ogni luogo di permanenza). Il provvedimento riguarda sia i «diniegati», ai quali è stata cioè negata la concessione del diritto di asilo, che le persone a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria per le quali la permanenza consentita è ora di soli 15 giorni dalla notifica del provvedimento. Il principio non dichiarato che sottende alla circolare inviata a enti e cooperative impegnate nell’accoglienza è sostanzialmente questo: siccome non si trovano nuovi posti per dare ospitalità a chi sbarca sulle coste italiane, vanno liberati al più presto quelli già occupati.

Un principio che non si fa carico del destino di chi sarà costretto a lasciare il posto e che azzera i percorsi avviati con fatica e dispendio di risorse ed energie per evitare che i «diniegati» e chi ha ottenuto il diritto a restare in Italia finiscano sulla strada. Perché la strada è il luogo al quale questi migranti saranno costretti, col rischio di accrescere le fila della manovalanza criminale. E anche se non fosse, la soluzione appare sbrigativa. Adesso si confida in una retromarcia della Prefettura (in altre province la circolare non è stata adottata e il riferimento a disposizioni di legge nazionali dai quali deriverebbe è controverso), anche perché il provvedimento è stato adottato nel periodo di vacanza della titolarità dell’ente di via Tasso, dopo l’uscita di scena del prefetto Francesca Ferrandino e prima dell’insediamento di Tiziana Costantino. La notizia della riduzione dei tempi di permanenza è già arrivata nei centri di accoglienza, generando tensione tra i migranti. Vanno quindi evitati passi affrettati che incrinino il clima di convivenza fin qui pacifico, al netto delle immancabili polemiche politiche e dei malumori di una parte dei cittadini.

L’Italia è il ponte dell’Europa nel Mediterraneo ed è stata lasciata sostanzialmente sola nell’affrontare i flussi migratori. Nel 2015 un milione di persone aveva attraversato il Mare Nostrum: 153 mila sbarcarono in Italia e 856 mila in Grecia. Nei primi 8 mesi di quest’anno in 281 mila sono approdati in Europa, 114 mila solo sulle nostre coste e 163 mila nel Paese ellenico, che ha beneficiato dell’intesa Ue -Turchia. Il governo Renzi ha battuto più volte i pugni sul tavolo a Bruxelles ottenendo qualche risultato ma la maggior parte delle promesse sono rimaste tali. Questo stato di solitudine non esime le istituzioni dal migliorare le politiche d’accoglienza, proprio perché il fenomeno al quale dobbiamo rispondere non ha più i connotati dell’emergenza ma è strutturale. Sarebbe conveniente che le istituzioni pubbliche centrali cercassero i correttivi necessari insieme a quelle locali e al non profit, per evitare indicazioni calate dall’alto, a danno dei soliti noti che portano in groppa il peso maggiore.

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