Apprendere la novità
La sfida per il lavoro

L’Italia è un Paese dove non mancano mai gli appelli. E più sono eccentrici, più clamore suscitano. Non stupisce quindi che, circa un paio di mesi fa, la lettera aperta indirizzata dal presidente della Confindustria di Cuneo ai genitori dei ragazzi che si apprestavano a scegliere la scuola superiore abbia destato non poche perplessità e polemiche, trattandosi appunto di un appello – sotto forma di consiglio «orientativo» – a far intraprendere ai propri figli percorsi formativi in grado di garantire un mestiere sicuro. Insomma, niente liceo e niente università, considerati troppo ambiziosi e idealistici, e soprattutto privi di sbocchi lavorativi immediati.

Sarebbe fin troppo facile ribattere osservando che ci si è più volte lamentati dell’opposto, vale a dire che in Italia abbiamo una percentuale di laureati più bassa rispetto alla media europea. E sarebbe altrettanto facile far notare che i ragazzi che scelgono discipline umanistiche e scienze sociali sono il 30%, soltanto un terzo cioè degli studenti universitari. Mi sembra quindi che il problema sollevato, nonostante il fragore, sia un falso problema.

Mi rendo conto che le esigenze dell’hic et nunc che deve fronteggiare il mondo dell’industria, con richieste di profili professionali adeguati al sistema produttivo del momento, siano quanto mai legittime. Ma non si può pensare a un sistema educativo e formativo tutto «schiacciato» sul presente. Non è così, almeno io credo, che si riuscirà a colmare lo scollamento, sempre più vistoso, tra mondo dell’istruzione e quello del lavoro. Non è questo che si deve chiedere all’università e alla scuola nel suo complesso. Tanto più che nessuno può sapere oggi quali tipologie di lavoro saranno disponibili per le future generazioni: quel lavoro non è stato ancora inventato, non esiste ancora. Badate, non lo affermo io, ma Derek Curtis Bok, che è stato presidente dell’Università di Harvard e che, rivolgendosi agli studenti, ha detto loro chiaramente che avrebbero perso il loro tempo pensando che studiare a Harvard significasse acquisire specializzazioni in cambio di un futuro migliore. Il presidente dell’Università di Harvard, con estrema onestà intellettuale, ha ammesso: «Non siamo capaci di prepararvi per quel lavoro che quasi certamente non esisterà più intorno a voi. Ormai il lavoro, a causa dei cambiamenti organizzativi e tecnologici, è soggetto a variazioni rapide e radicali». E ha aggiunto: «Noi possiamo soltanto insegnarvi a diventare capaci di imparare, perché dovrete reimparare continuamente».

Reimparare continuamente: ecco il mantra che dovrebbe risuonare nelle menti di chi ha davvero a cuore la formazione dei nostri giovani e il loro ingresso nel mondo del lavoro. È questo l’autentico investimento che bisogna fare sulla formazione. Perché investire sull’acquisizione di metodi adeguati per apprendere sempre cose nuove, significa fare politica industriale in modo serio e scommettere sul futuro. È questo l’obiettivo cui la scuola e l’università devono puntare: fornire metodi e strumenti per mettere i giovani in relazione con le sfide inedite che ci attendono. E per farlo bisogna ritornare a educare persone che diventeranno poi lavoratori in grado di rimanere produttivi e intellettualmente vivaci, e non lavoratori con competenze che rischiano di avere il fiato corto. È innegabile. La vera differenza, in futuro, la faranno la conoscenza e la competenza. Ma è altrettanto innegabile che non potrà mai mancare la passione e il coraggio di inseguire le proprie aspirazioni. Sì, proprio così, il coraggio di inseguire i propri ideali, mantenendosi sempre permeabili alla curiosità. E lo dico a ragion veduta. Una ventina di giorni fa, ho tenuto una conferenza a Milano a «Tempo di libri» sul 70° anniversario della nostra Costituzione: più che una conferenza, a dire il vero, un dialogo aperto con ragazzi delle scuole e dell’università. Ebbene, a un certo punto ho chiesto loro se avevano delle curiosità sulla storia della nostra Carta costituzionale e, nell’attesa che qualcuno rompesse il ghiaccio, ho anche chiesto la loro età. Mi hanno risposto che erano del 2001 e quando ho esclamato, un po’ per celia e un po’ per enfasi, «2001, grande generazione», uno di loro mi ha detto: «No prof., la nostra è una generazione priva di fiducia, non abbiamo curiosità per nulla». Sono rimasto letteralmente senza parole: come può un ragazzo di 17 anni, un ragazzo che ha davanti a sé tutto un futuro da immaginare e scoprire, fare un’affermazione così triste? Chi gli ha tolto la fiducia e lo slancio per la curiosità, incentivi necessari e indispensabili per ogni prospettiva di vita degna di essere vissuta?

Mi sembra una responsabilità enorme riuscire a motivare le nuove generazioni e infondergli il piacere dell’avventura della conoscenza e della curiosità intellettuale. Prima ancora di preoccuparsi di quale lavoro possano fare domani, è questa la vera sfida che dobbiamo cogliere, perché il resto verrà da sé. A quel ragazzo, ho risposto citando alcune parole dell’ultimo discorso di Aldo Moro prima del rapimento. Sono parole di 40 anni fa, ma che sono rimaste quanto mai attuali e da sottoscrivere con forza : «Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato».

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