Bankitalia e il destino
dentro l’Europa

Nell’ atmosfera ovattata di Palazzo Koch, dove ieri Ignazio Visco ha letto le sue «Considerazioni finali», era difficile sfuggire alla sensazione un po’ straniante di essere nel posto sbagliato rispetto agli umori di un Paese diviso, agitato e rumoroso, che non riesce a fare i conti con il suo futuro e con la politica nel caos. Il ritmo severo della relazione, la recita solenne di numeri e di «considerazioni» pensose, confliggevano con ciò che accadeva fuori. Nell’ era degli smartphone, banchieri e industriali tenevano un occhio al fascicolo stampato come da tradizione a tarda notte della vigilia, ma con l’ altro compulsavano i piccoli schermi tascabili che segnalavano la tempesta finanziaria in corso in quello stesso momento, con spread in veloce salita, a triplicare la soglia fisiologica, e Borse a picco.

In quegli affollatissimi e prestigiosi metri quadrati, la più alta concentrazione immaginabile di establishment (proprio quello che antagonizza milioni di voti alle elezioni), ascoltava sospesa tra un passato recente ancora con numeri confortanti e un presente di incertezza e disorientamento. Se non di paura. E se quindi Visco liquidava come «emotiva» la reazione dei mercati, voleva essere rassicurante ma non del tutto convincente. Nell’ ora impiegata dal Governatore per la sua relazione già erano svaniti miliardi a Piazza Affari ed era salito a più del 3% il costo di un debito a 10 anni, per cui sentir ricordare che ogni anno si devono collocare circa 400 miliardi di debito, faceva venire i brividi, visto che sono fondi indispensabili per pagare stipendi e pensioni.

Insomma, sensazioni che non si provavano da tempo, specie dopo un 2017 che aveva segnato una ripresa del pil, un recupero dell’ occupazione, una crescita sia pur moderata degli investimenti, un vero e proprio boom delle esportazioni. Tutti dati puntualmente forniti da Visco nel suo sforzo di equilibrio tra chiari e scuri della nostra economia, ivi compreso un importante accenno alla povertà. I toni della relazione sono rimasti prudenti ed equilibrati in tutta la parte descrittiva, segnata da alcuni termini-chiave: l’ accento sul valore della fiducia, la segnalazione della scarsa crescita della produttività, l’ importanza della politica monetaria che da Francoforte ci ha tanto aiutato (e presto finirà, magari di colpo, se cala il rating). Importante il giudizio positivo sul sistema bancario, qui peraltro senza accenni autocritici sulle carenze della vigilanza che talune crisi hanno evidenziato.

Un invito alle Banche a ritrovare redditività, un appoggio alla severità - poco popolare - dei regolamenti di Basilea, un giudizio benevolo per gli sforzi dei grandi gruppi (patrimonio raddoppiato rispetto a 10 anni fa), il richiamo alle riforme da rafforzare nelle Banche Popolari e nelle Casse Rurali. Ma il tono è cambiato appena si è arrivati al capitolo debito, che è un numero (2.300 miliardi), non una cattiveria di oscuri complottisti. Chi è debitore è sempre un po’ limitato nella sua sovranità. Per informazioni, citofonare Tzipras, il leader del referendum greco anti Europa che poi ha chiuso bancomat e tagliato pensioni, salvando la sua economia solo con l’ austerità obbligata (e pronto quindi a perdere le prossime elezioni, perché così va il mondo). Se cala il debito, cresce la libertà di pensare tutti i piani B che piacciono. Ma la ricetta di Visco è ardita: per scendere dal 132 a 100 sul prodotto, ci vogliono 10 anni con un avanzo primario del 3-4% che oggi ci sogniamo. E quindi la conclusione di Ignazio Visco è obbligata: «Il destino dell’ Italia è in Europa». Piaccia o non piaccia.

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