Della Valle e D’Alema
Uno spot per Renzi

Lui s’è dimenticato le forbici, loro di avere avuto una vita. Sono Matteo Renzi e i suoi nemici, che in questa settimana di scaramucce hanno assunto una figura definita e riassuntiva dalla testa ai piedi: la testa di D’Alema e i piedi di Della Valle. Lui, il premier, ha accettato di darla vinta in parte ai burocrati dei ministeri che spingevano per edulcorare la spending review.

E questo è male soprattutto agli occhi di quegli italiani – dipendenti, artigiani, pensionati – che avevano per primi tirato la cinghia e s’aspettavano risparmi diffusi anche dallo Stato. Del resto si chiama debito pubblico, quindi sarebbe del tutto legittimo che a pagarlo sia chi lo ha prodotto. Ma anche Renzi, come prima di lui Berlusconi, Monti e Letta, è andato a sbattere contro un muro di gomma che ha attutito, liofilizzato, vanificato il lavoro del commissario Clint Eastwood Cottarelli. Ecco perché se ne sta andando.

Questo segno di oggettiva fragilità dell’esecutivo ha fatto uscire dalla foresta due nemici che non ti aspetti, un notabile della «politique politicienne» come Massimo D’Alema (il francese fa chic, ma la metafora del pestare l’acqua nel mortaio rende meglio l’idea) e un outsider bartaliano al quale nulla va mai bene da un ventennio come Diego Della Valle, che per i suoi frequenti accessi d’ira viene definito dal maligno mondo romano «un petardo con le scarpe nuove». I due oppositori contestano a Renzi la stessa cosa: un’annuncite esasperata, una secondo loro strutturale incapacità di passare dall’enunciazione alla concretizzazione. Un modo di essere diversamente immobile come, per esempio, Enrico Letta.

La critica è rispettabile, numerosi provvedimenti attendono d’essere completati e la cinghia di trasmissione fra teoria e pratica mostra stridori di frustrazione stile «vorrei ma non posso». Ma alla base di tutto c’è un effetto ottico fuorviante: Renzi è molto presente sulla scena e questo lascia credere che stia al governo da sette anni. Invece sono solo sette mesi, il cantiere delle riforme è aperto, il coraggio non sembra mancare all’esecutivo dei boys e il Paese ha bisogno come l’aria di un salutare bagno di modernità.

Ecco perché il piagnisteo di D’Alema e di Della Valle ha qualcosa di sfasato; niente è più stucchevole dei vecchi che danno lezioni col ditino alzato quando la Storia ha già voltato pagina. Ricordiamo i fasti di D’Alema dalle elezioni del 2001, quando rischiò di rimanere sul bagnasciuga di Gallipoli, vittima di una veemente campagna elettorale di Berlusconi portata fino a casa sua. Allora Baffino (l’unico diminutivo tollerato dal suo ego ipertrofico) fu costretto a frequentare le cucine delle pizzerie e i bar delle discoteche per rimontare la scomoda posizione. Beveva long drink e stringeva mani. Lui così antropologicamente disgustato dalla folla, costretto a nuotare controcorrente. Era il 2001, era reduce da palazzo Chigi, sarebbe rimasto sui banchi parlamentari per più di un decennio, tessendo alleanze, trappole e scenari mentre il Paese se ne andava alla malora.

D’Alema e Della Valle rappresentano due mondi che non si somigliano. Il primo è il campione di un manipolo di nostalgici della vita in debito, del primato della dialettica di partito, dell’andamento lento come antidoto a parolacce quali lavoro, produttività, concretezza. Il secondo è un imprenditore di successo che non ce la fa proprio a rinunciare al sogno da tecnocrate di turno, con la sua squadra di bocconiani, olio di ricino e calci nel sedere alla politica. No grazie, abbiamo già dato con la Fornero. Ma sia D’Alema sia Della Valle producono un effetto formidabile: ci inducono a sperare che il governo dei boy scout abbia successo.

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