Demagogia e destino
dei nostri risparmi

Quando la politica, come in queste settimane, è innanzitutto comunicazione e non ancora decisioni, le priorità dicono tutto. Un tema fondamentale, come quello della fine annunciata del quantitative easing di Draghi non è neppure citato nelle 50 pagine del programma, pardon: contratto, di governo. Ha invece un posto d’onore ed è stato rilanciato giusto ieri dal ministro Di Maio, quello delle pensioni d’oro. Ottimo per rovistare nell’invidia sociale, e magari per far illudere che aiuta ad alzare quelle basse.

Per trovare la parte non sostenuta da contributi degli assegni sopra 5.000 euro occorre esaminare circa 30 mila posizioni su 16 milioni di pensionati, metà dei quali hanno una integrazione dallo Stato più o meno grande, anche totale. Al massimo 115 milioni di risparmi. Peccato che, se entrasse contemporaneamente in vigore la flat tax, una pensione netta di 72.446 euro perderebbe 3.429 euro perché «d’oro», ma avrebbe un beneficio di 24.080 euro grazie alla nuova tassazione. Cosa non si fa per la demagogia…
Se guardiamo invece a problemi più grandi e più complessi che riguardano la tenuta del sistema Paese e il destino del risparmio degli italiani le questioni sono ben più serie. Lo dice il ministro Tria, facendo finta di non aver letto il «contratto», i cui estensori ricambiano facendo finta di non sentire le sue dichiarazioni. Per ora va bene così. La Bce ha fornito intanto le tempistiche della fine della «pacchia» monetaria iniziata nel 2015, quella che ha comprato 356 miliardi di debito e fatto risparmiare non 115 milioni ipotetici ma quasi 50 miliardi di interessi veri. Il rubinetto si chiuderà del tutto entro l’anno, scendendo dagli iniziali 80 miliardi a 15 e infine a zero.

Questo sì che è un problema da mettere in testa all’agenda. Con o senza QE, l’Italia continua ad aver bisogno di trovare ogni anno 400 miliardi sugli esecrati mercati, senza i quali non si pagano stipendi e pensioni. Senza ombrello europeo, occorrerà alzare i tassi, e secondo l’Osservatorio di Cottarelli già il conto 2018 dovrebbe essere di 800 milioni (ricordare sempre il confronto con i forse 115 delle pensioni d’oro), mentre l’anno prossimo sarà di 3,7 miliardi. Buon senso suggerirebbe di non agitare ulteriormente le acque. Già c’è un programma che costa 120 miliardi. Ora si dice che le promesse saranno mantenute già nel 2018 ma è fisiologico pensare che per fortuna il mostro non potrà digerire, tutto in un colpo, simile malloppo. Sarebbe però opportuno evitare almeno di aggiungere al conto gli effetti annuncio. Quelli del mese scorso di Borghi e Bagnai (promossi presidenti delle commissioni Bilancio) e in generale dei partiti di governo sono purtroppo già quantificabili. Lo si vede dalla differenza delle aste di titoli pubblici tra maggio e giugno.

L’11 maggio il Tesoro ha piazzato ancora i Bot 12 mesi con un interesse negativo dello 0,399. Il 12 giugno, l’interesse è diventato positivo: +0,550. Altro indicatore, ancor più inquietante: per i Btp con scadenza 2025 l’interesse è salito da +1,34 a 2,37. Ogni miliardo sottoscritto non costa più 13,4 milioni, ma 23,7. Questo mese ne scadono 31, a luglio altri 13. Le piccole cifre diventano grandi. Si dirà che hanno concorso fattori diversi e che Trump è più dannoso di Borghi e Bagnai ma perché mai dobbiamo pagare l’euforia elettorale di due neo parlamentari, che fanno solo dichiarazioni, non atti di governo? Bisognerebbe insomma starci un po’ più attenti, perché a rischio c’è la sostenibilità di un Paese. Un po’ di propaganda, abbiamo visto, non scalfisce le pensioni d’oro, ma se i conti non tornano soffoca quelle di metallo ben più vile. I greci ci hanno messo anni, con tagli anche alle pensioni povere, per venirne fuori.

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