Democrazia sospesa
sobillando la folla

Adesso possiamo dirlo. Nessuno, almeno nei tempi moderni, ha scosso le istituzioni americane quanto Donald Trump. E nessuno è riuscito a rafforzare la democrazia di fatto degli Usa quanto lui. Per il primo aspetto non occorre andare lontano, basta ripercorrere le ultime settimane. Trump, che aveva preparato la strategia del «broglio» e del «complotto» ben prima del 3 novembre del voto, ha tenuto quasi da solo in sospeso il sistema. Forte di un vasto seguito popolare (74,2 milioni di voti, secondo candidato più votato di sempre dopo Joe Biden) e di un nucleo ridotto ma coeso di parlamentari repubblicani, e abile nel mettere a profitto le contraddizioni di un sistema elettorale almeno bislacco, Trump ha fatto saltare tutti i riti e le abitudini della politica americana. Non fino all’ultimo ma anche oltre: resteranno nella storia le immagini dei manifestanti pro-Trump che occupano il Parlamento e costringono deputati e senatori a interrompere i lavori e a rinviare la proclamazione del nuovo presidente.

Così facendo, però, Trump ha anche rinsaldato quella specie di spirito di corpo che spinge i politici americani (quasi tutti, almeno) a dimenticare le appartenenze personali quando si tocca il limite, quando in gioco entra l’integrità del sistema. L’esempio più clamoroso e indicativo è quello delle elezioni presidenziali del 2000. Erano in corsa George Bush (repubblicano) e Al Gore (democratico). Alla Casa Bianca arrivò Bush grazie ai voti decisivi della Florida, dove i repubblicani che governavano lo Stato fecero strame di ogni regola e fair play pur di fargli ottenere qualche voto in più. Lo riconobbero anche i giudici della Corte Suprema (sei su nove firmarono una lettera in cui stigmatizzavano appunto quegli abusi), i quali poi sentenziarono che non c’era tempo per far ricontare quei voti. In pratica, Bush vinse le elezioni barando, la Corte Suprema lo sapeva ma non ritenne di spaccare il Paese. E Al Gore s’inchinò alla sentenza.

Con Trump, adesso, è successo qualcosa di analogo. Sessanta ricorsi, tutti respinti. Una pesantissima sentenza contraria da parte della Corte Suprema, dove sei giudici su nove sono di estrazione repubblicana. Una parte maggioritaria del Partito Repubblicano più che pronta a riconoscere come legittima l’elezione di Biden. Il vicepresidente Mike Pence che rifiuta di prestarsi alle ultime disperate manovre. Come sempre, nelle crisi politiche, l’integrità e il funzionamento del sistema diventano i beni supremi. Quello che nessuno aveva previsto, almeno fino a qualche tempo fa, era quanto fosse profondo e radicato il sostegno popolare a Trump. E quanto l’ormai ex presidente fosse pronto a mobilitarlo contro le istituzioni. Ed è questo il vero problema politico degli Usa da domani. Trump passerà, quattro anni lontano dal potere e con il rischio di spiacevoli conseguenze (un gruppo di parlamentari democratici è già pronto a chiederne l’incriminazione per gli ultimi eventi e per aver sobillato la folla, che ha mostrato anche le armi) sono un’eternità. Ma se nel 2020 Trump ha preso molti più voti che nel 2016, vuol dire che una parte consistente dell’elettorato, e ancor più della società americana, si è riconosciuta nella sua azione e nella sua figura. È un capitale che Trump cercherà di mettere a frutto o di passare a un qualche successore di fiducia. Ma è anche una montagna che Joe Biden e Kamala Harris dovranno in qualche modo scalare e a cui dovranno dare una risposta politica e soprattutto economica.

Non sarà facile. Ci sono milioni di lavoratori da soddisfare e soprattutto milioni di americani ai quali indicare una strada. Lo slogan «America First» di Trump sarà anche stato una rozza scorciatoia ma aveva un senso per la vasta America delle periferie contadine e industriali dei bianchi. Biden dovrà esercitarsi nella difficile arte della costruzione di ponti per raggiungere una parte del Paese che oggi lo considera un ladro di elezioni. Oggi, ma non necessariamente domani. E qui Biden non potrà affidarsi a Kamala Harris, che gli ha portato i voti delle donne e delle minoranze di colore ma che per quel compito non è, né può essere, la figura giusta. Vedremo chi tra i suoi collaboratori saprà affrontare la sfida. Senza dimenticare un certo Obama, che gli ha tirato la volata elettorale e non lesinerà di certo i suoi consigli.

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