Elezioni, una chimera
chiamata stabilità

Per cinquant’anni, da quando i nostri padri costituenti ci dotarono di una democrazia parlamentare debitamente supportata da un proporzionalismo puro, parlare di riforma elettorale è equivalso a una semplice provocazione. Proporzionale era e proporzionale doveva restare. La rappresentatività delle istituzioni, anche a costo di una carente governabilità, doveva considerarsi il succo della democrazia. La nostra Repubblica si sentiva orgogliosa di godere del più alto tasso di partecipazione popolare alla vita pubblica.

A lungo si è recato alle urne più del 90 per cento degli elettori. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta sono stati milioni gli iscritti ai partiti e decine di migliaia gli attivisti. Tanto bastava e avanzava perché i partiti del cosiddetto «arco costituzionale» avvalorassero la nostra come la più avanzata, forse addirittura come l’unica compiuta tra le democrazie occidentali.

Mal gliene incolse (anche se si trattava di uno statista del calibro di Alcide De Gasperi) a chi osò introdurre (siamo nel 1953) un correttivo maggioritario per garantire una migliore governabilità del sistema. Ancor peggior sorte toccò a chi (come il combattente antifranchista Randolfo Pacciardi) sposò la causa del maggioritario, adottato a cavallo degli anni Sessanta dalla Francia del generale De Gaulle. Gli piovve addosso niente meno che l’accusa di coltivare un progetto eversivo. Valeva l’equazione maggioritario=nuovo fascismo.

Ci sono voluti la crisi petrolifera, il terrorismo, gli «anni di piombo», la paralisi dell’azione governativa per far disamorare definitivamente i cittadini del sistema dei partiti costruito sul proporzionalismo. A eroderne gli ultimi residui di credibilità s’incaricò la «questione morale» che aprì la voragine in cui sarebbe sprofondato l’intero sistema dei partiti postbellico. La proporzionale, da lievito della democrazia che era, di colpo si appalesò come la madre di tutte le corruzioni e di tutte le pratiche collusive della partitocrazia imperante. Fu la fortuna del maggioritario. Questo, sì, che avrebbe restituito lo scettro del potere nelle mani degli elettori. A loro, e non più alle segreterie di partito riunite nelle segrete stanze, sarebbe toccato di scegliere i parlamentari. A loro, e a nessun altro, sarebbe spettato indicare nelle urne chi li avrebbe governati nei successivi cinque anni.

A parte un simulacro di democrazia dell’alternanza, tutte le promesse di un radioso futuro per la nostra democrazia erano destinate a restare tali. La Repubblica del maggioritario mostrò presto di non avere nulla da invidiare alla Repubblica del proporzionale quanto a frammentazione dei partiti, cambi di casacca, giravolte, corruzione.

A trascinare nell’ultimo girone del discredito la democrazia del maggioritario ci hanno pensato infine, prima Calderoli col Porcellum, che espropriava letteralmente gli elettori del potere di scegliersi gli eletti, e poi Renzi, che con l’Italicum si è tirato addosso l’accusa di promuovere «una deriva autoritaria». Non ci resta a questo punto che tornare al proporzionale del Germanicum. Non fa niente se il sovrappiù di rappresentatività sarà pagato con un pesante deficit di governabilità. I partiti della Seconda Repubblica ci hanno proposto sempre nuove riforme elettorali presentandole ogni volta come la leva di un sicuro riscatto della democrazia. Alla luce dei deludenti esiti, nessuno si fa più illusioni sul carattere rigeneratore delle riforme elettorali. Anzi, il ricorso ininterrotto e inconcludente a nuovi, spesso abborracciati, sistemi di voto si sta rivelando, invece che un toccasana per la nostra democrazia, piuttosto lo specchio di un riformismo improduttivo e senza costrutto.

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