Gentiloni il mite
uno stile di governo

Ogni giorno ha la sua pena, ma è anche il tempo dei pontieri, di quelli che intendono aggiustare le maglie dopo strappi e conflitti. L’interlocutore di una certa Italia stanca degli eccessi di adrenalina e che chiede una pausa di decantazione sembra essere Paolo Gentiloni: per carattere e per metodo. Quello di Paolo il mite è descritto come un profilo basso, in realtà appare essenziale e per questo apprezzato. Uno stile misurato da tessitore, senza invadere i media, una moderazione di toni intesa come «sentimento dell’anima». Non per questo va preso per un debole. Al quartier generale dell’Europa, di cui conosce i rapporti di forza, non entra a passo di carica: semplicemente riafferma le buone ragioni di un’Italia che i compiti a casa li sta facendo. Un passettino alla volta per non essere costretto a farne due indietro. Ha tacitato il suo ministro Calenda sull’idea che il voto a giugno sarebbe un guaio per la tenuta del Paese con due parole, evitando la trappola del giudizio di merito: «Opinioni personali».

E alla sua squadra chiede di «lavorare e non fare politica». Mettiamoci nei suoi panni. È il quarto premier consecutivo la cui nomina non deriva da un’elezione. Se l’ottovolante della legge elettorale va a sbattere, questo esecutivo dura al massimo un anno, l’arco di mesi per completare la legislatura: un orizzonte di tempo segnato e con margini operativi limitati. Il suo mandato è garantire quel tanto di stabilità indispensabile ed è legato alla riuscita della nuova legge elettorale per rendere più compatibili i sistemi di Camera e Senato. Un consenso in ogni caso da cercare: l’arbitro Mattarella è stato chiaro sulla necessità del passaggio parlamentare.

L’accordo è improbabile, va però tentato e il compito del governo è accompagnare i partiti verso l’obiettivo. Un sentiero stretto per chi deve garantire l’autonomia del governo e, insieme, rimanere leale al proprio partito e a chi lo ha portato a Palazzo Chigi (Renzi), collocando le istituzioni ad una distanza di sicurezza dalle forze politiche. Gentiloni non dà l’idea di scambiare il proprio destino per quello del Paese e ci sembra avverta l’eco stonata fra le voci di un’Italia reale in sofferenza e le voci dei partiti ripiegate sulla convenienza, in un tornante rischioso per la società stessa: la gestione del post-terremoto, la manovra correttiva dei conti pubblici a primavera, la crisi bancaria, le emergenze sociali con la disoccupazione giovanile fuori controllo, l’amministrazione dei flussi migratori dove il ministro Minniti sta mandando segnali di un certo peso. E in più ci sono le relazioni internazionali, la politica vera: dal terrorismo allo tsunami Trump, dal voto in Olanda, Francia e Germania all’offensiva dei populisti.

In una prospettiva incerta e imprevedibile, prevale il «come» rispetto al «quando» andare a votare: ovvero, con quale legge elettorale per garantire una maggioranza e un governo. Perché a ottobre bisogna mettere mano alla manovra finanziaria, un percorso a ostacoli per qualsiasi esecutivo. Potrebbero essere le circostanze a decidere la data del voto, più che le convinzioni dei singoli attori, pur in presenza delle obbligate aperture giunte da Renzi. Ma un eventuale rinvio delle elezioni vorrebbe dire cambiare la natura del governo Gentiloni, chiamato a dismettere la sua caratteristica – per così dire – provvisoria, a dotarsi di un’agenda politica vera e propria con impegni precisi e riconosciuti e a ricevere un adeguato consenso. A cominciare dal Pd di Matteo Renzi, che non crede più di tanto in questa legislatura e che potrebbe trovarsi con un governo amico diventato, allungando il passo, un governo competitore.

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