Gigante dimenticato
dalla riconoscenza

Chissà cosa pensava di questi tempi tormentati, Helmut Kohl, il cancelliere della riunificazione tedesca e uno degli ultimi Grandi d’Europa. Quella generazione di statisti (non soltanto presidenti o capi di governo) che, esauritesi la fase pionieristica e la prima modernizzazione, ha consolidato il vecchio continente, traghettandolo nella nuova tumultuosa modernità dopo la fine del comunismo e il ritorno a casa dell’altra Germania. Vedere il gigante Helmut sulla carrozzella, in questi anni, il vigore umiliato del cancelliere più longevo del dopoguerra, era come riunire in una sola immagine sgualcita il declino ingeneroso di un leader entrato nella storia e la sua creatura, la «casa comune europea», regredire verso la paralisi. La biografia e il lascito di costruttori europeisti del rango di Kohl, così come quelli dei Mitterrand, dei Delors, dei Giscard e degli Schmidt, creano un solco fra la visione creativa di ieri e il modesto cabotaggio di oggi. E pensare che erano in pochi a scommettere sul futuro di questo omaccione, scambiato per un sempliciotto e dato per provvisorio. Eppure il leader democristiano che ha guidato con la forza tranquilla la Germania per 16 anni, dall’82 al ’98, ha risolto al meglio l’angoscia tedesca. «Avanti così, Germania», era questa la colonna sonora del modello tedesco, l’incedere ordinato di una cultura politica che incontrava la sensibilità del Paese: quella di una «potenza civile» cresciuta nel segno della stabilità e di una formula distintiva fatta di ricerca del compromesso e di uno sviluppo economico capace di creare consenso. Tocca a Kohl smentire il vecchio adagio riduttivo che voleva il suo Paese «gigante economico e nano politico»: in realtà è anche con lui che la storia non finisce, ma riprende a correre, senza finire di sorprendere.

C’è un testimone bergamasco – Filippo Maria Pandolfi, vicepresidente della Commissione europea a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 – che può descrivere la tensione morale di Kohl. Pandolfi è sempre rimasto colpito da una frase ricorrente del cancelliere tedesco: «La mia religione politica è l’amicizia franco-tedesca». Quella solidarietà che si ritrova nell’immagine di Kohl e Mitterrand mano nella mano nell’84 a Verdun, teatro fra i più sanguinosi della prima guerra mondiale, il suicidio collettivo di una civiltà. Quell’incedere severo dei due leader, chiusi nei loro cappotti scuri, che s’accompagna a parole solenni: «Germania Federale e Francia hanno tratto il loro insegnamento dalla storia. Ci siamo riconciliati. L’Europa è la nostra patria culturale. L’unità dell’Europa è il nostro obiettivo comune». L’appuntamento con l’impensabile avviene nell’indimenticabile ’89 e segna un prima e un dopo per tutti, a cominciare dal Paese che più di ogni altro ha segnato la politica d’integrazione europea subendola nelle prime fasi, plasmandola dopo e beneficiandone nel lungo periodo.

Dinanzi al crollo del Muro, il cancelliere intuisce che la carta decisiva è il tempo e coglie la finestra d’opportunità offerta da un Gorbaciov ancora in sella ma non per molto. La riunificazione è temuta dalla Thatcher e dallo stesso Mitterrand. Si pone così nuovamente il problema di trovare una soluzione alla questione tedesca: stavolta unita, potente e temibile. Kohl rischia anche sul piano interno perché, con la Bundesbank contraria, procede alla riunificazione con il cambio del marco alla pari, cioè con la Germania dell’Ovest che finanzia quella dell’Est. Finisce nel mentre l’epopea del marco, il simbolo della ricostruzione tedesca, con lo scambio geopolitico sul quale concorda alla fine il principale interlocutore del cancelliere, cioè Mitterrand: in cambio del sostegno degli altri Paesi europei, i tedeschi s’impegnano a rinunciare alla loro sovranità monetaria attraverso l’europeizzazione del marco. La moneta unica verrà concepita a Maastricht e, nel difendere l’euro, che allora non convinceva tutti i tedeschi, dirà che si trattava di una «questione di guerra o di pace».

La grande stagione del cancelliere finisce in sostanza qui, salvo ricordare le sue buone relazioni con alcuni politici italiani (oltre a Pandolfi, Martinazzoli e Prodi) e – da raffinato studioso di questioni bibliche – le sue frequentazioni con il cardinal Martini a Milano. Il destino, strada facendo, non gli ha fatto sconti e il suo triste tramonto è stato segnato da problemi famigliari e da una vicenda di illecito finanziamento. È Kohl a scoprire e a lanciare la «ragazza», come chiamava Angela Merkel.

Ma la fine politica, orfana della riconoscenza, per lui era ormai segnata. La storia da allora è stata diversa.

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