Giustizia show
e colpe degli altri

I processi non si fanno in televisione o sui giornali. Quante volte si è sentito questo giudizio, che dovrebbe essere ovvio, declamato come un sacro principio inviolabile. Pronunciato anche in diretta tv da avvocati e giornalisti in premessa ai talk show allestiti sui grandi casi di cronaca giudiziaria. «I processi non si fanno in televisione o sui giornali» è spesso il ciak di queste puntate, poi seguito da un effluvio di parole contundenti nella schermaglia fra accusa e difesa. In principio fu il plastico della villetta di Cogne nella grande aula giudiziaria di «Porta a Porta», con il procuratore Bruno Vespa a ricostruire gli ultimi momenti di vita del piccolo Samuele.

Era l’inizio del 2002 e da allora ne sono passate di parole negli studi televisivi. Un modello che ha fatto scuola. Del resto il genere - il faro puntato sui delitti irrisolti - tira, come si dice nel gergo mediatico. Una parte del pubblico è attratta da queste vicende, metafora della condizione umana, della lotta perenne fra il bene e il male. Si identifica con le persone coinvolte, parteggiando. Nel migliore dei casi. Nel peggiore è un interesse malato di morbosità. Chi fa informazione conosce questo meccanismo e il senso di responsabilità dovrebbe definire il confine nella sollecitazione dell’interesse, fra quello legittimo e quello appunto malato. Sul tema però c’è molta ipocrisia. Si declamano i sacri principi ma poi ogni attore in causa - con responsabilità diverse - cerca di trarre maggior profitto possibile dalla gran cassa della giustizia mediatica.

A questa evidenza non si è sottratto nemmeno il «caso Yara», purtroppo. Al punto di essere finito nel documento con il quale l’Unione delle camere penali italiane ha annunciato l’astensione dalle udienze, da lunedì scorso a domani. Gli avvocati infatti ritengono che «occorre intervenire per evitare la spettacolarizzazione dei processi e l’alimentazione dei circuiti mediatici, che finiscono per consegnare all’opinione pubblica giudizi preconfezionati, attraverso l’esibizione e la gogna degli arrestati». Parole giuste. Il populismo giudiziario è una degenerazione culturale tutta italiana, che non ha dato risposta alla domanda sacrosanta di giustizia ed ha relegato le difese in un ruolo scomodo. Quando il processo arriva in aula, preceduto da quello mediatico, ha già sul collo il fiato pressante dell’opinione pubblica che si è «formata» un giudizio attraverso i talk show, nel guazzabuglio di fatti e opinioni in sovrapposizione. In più c’è il connubio fra certe procure e i media, con le prime a fornire ai secondi carte delle inchieste allo scopo di agitare le acque e indirizzare l’opinione pubblica nel verso dell’accusa. E gli avvocati ad apprendere notizie sui loro assistiti da tv e giornali. Un sistema sbilanciato e dannoso, che avvelena il clima dei processi ai quali si arriva con le sentenze di condanna già emesse dalla «giuria popolare» del pubblico televisivo o dei lettori della stampa.

Ma nel caso del processo Bossetti anche le difese dell’imputato non si sono certo sottratte al rito mediatico. Giocano le loro carte, ma con alcuni eccessi. L’assemblea dei penalisti bergamaschi ieri ha discusso anche di questo caso. Un pubblico ministero ha invitato la categoria che lo ospitava a fare autocritica. Ecco, a noi pare che in generale l’autocritica sia decisiva per una riforma della giustizia che è intralciata da corporativismi e arroccamenti. Ognuno dovrebbe fare autocritica - le procure in primis, tenendo conto di tanti processi mediatici che in aula si sono chiusi con l’assoluzione degli imputati - e non usare la parola come chiave d’intrusione nel campo avverso. Sollevando finalmente il velo d’ipocrisia che copre il dibattito sulla giustizia.

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