Gli enti inutili
superfluo intoccabile

Nel 1890 Aristide Gabelli, deputato e studioso, affermò che il mondo delle istituzioni di assistenza era un «bosco ignoto e pauroso», nel quale non conveniva addentrarsi. Quasi cento anni più tardi Nello Ajello rivelò che l’Ente comunale di assistenza di Roma impiegava il 98% del bilancio in spese per il personale. «Ancora un piccolo passo», chiosava il brillante giornalista, e si sarebbe raggiunto il traguardo dell’ente inutile perfetto. Quello nel quale le risorse servono a dare stipendi a chi vi lavora.

Per modo di dire, ovviamente. Il problema degli enti inutili, non è nuovo al panorama amministrativo italiano. In Italia la cancrena della miriade istituzioni pubbliche, para-pubbliche o private controllate dai poteri pubblici non è mai stata estirpata. Anche se i tentativi non sono mancati. A partire dagli anni ’70 molte leggi hanno previsto, e in alcuni casi imposto, la soppressione di enti inutili, il loro accorpamento, o almeno la loro razionalizzazione sul piano della funzionalità e dei costi. Tutto inutile, proprio come gli enti da sciogliere.

Alla sconfitta dei tentativi di alleviare il bilancio pubblico - e di, riflesso, le tasche dei contribuenti - dal peso di istituzioni che non servivano, si è aggiunto il paradosso amministrativo. L’istituzione di una direzione generale, presso l’allora ministero del Tesoro, deputata per decenni a occuparsi degli enti disciolti. Con vicende al limite del grottesco di istituti che sopravvivevano soltanto per gestire le pensioni dei loro ex-impiegati o per concludere una causa intentata da un ex-dipendente. Perché nel nostro Paese ciò che è superfluo diventa, come per magia, intoccabile. Quindi, immortale. Non c’è verso di pervenire al trapasso dei cadaveri amministrativi.

Detta così, la questione potrebbe essere rubricata nell’ampio catalogo delle nefandezze burocratiche. O essere riportata nell’alveo della polemica contro gli impiegati nullafacenti. In realtà, il problema ha origini e motivazioni più complesse. Gli enti «strumentali» hanno in moltissimi casi un ruolo non eliminabile. Si pensi alle aziende di trasporto urbano, ad esempio, o ad altre funzioni di tipo «industriale» che i comuni farebbero fatica a svolgere direttamente. Sotto questo aspetto la partita si gioca sul terreno della funzionalità e dell’efficienza dei servizi offerti. E sono molte le aziende che sanno onorare questo obbligo offrendo prestazioni di qualità. Vi è però l’altra faccia della medaglia: enti, aziende, organismi di varia natura che nascono, o diventano nel tempo, luoghi nei quali la vera ragione di esistenza è alimentare il consenso elettorale. All’interno di questo perimetro vi sono situazioni assai diverse. Enti con una quantità di personale assolutamente eccedente i compiti svolti o da svolgere: qui la casistica è impressionante. Uno degli indicatori più significativi è il rapporto tra spese per il personale e costi complessivi. Nella media - secondo i dati della Corte dei Conti - la percentuale supera il 30%; ma arriva a punte del 78% in Basilicata e del 60% in Calabria. Circostanza che fa venire in mente l’intervento di un deputato del Congresso degli Stati Uniti, il quale auspicò che il numero degli addetti dell’Agenzia federale per l’agricoltura non superasse il numero degli agricoltori americani. Poi vi sono enti con un numero di addetti minore di quello degli amministratori, elemento che induce a ritenere che il compito principale dell’ente sia fornire una poltrona per amministrare il nulla. Il denominatore comune è l’acquisizione del consenso. La tecnica è consolidata e può arrivare a perfezione matematica: tanti assunti, tanti voti acquisiti. Con buona pace della serietà nelle assunzioni. Per guardare meglio dentro al fenomeno ci vorrebbe la lente di ingrandimento. L’unica in grado di analizzare accuratamente l’Ente di ingrandimento.

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