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MONDO. Il timore di una ripresa dell’inflazione sta posticipando la scelta di ridurre i tassi d’interesse di riferimento.
L’inflazione sta rialzando la testa negli Stati Uniti. L’unica buona notizia, per il momento, è che l’aumento generalizzato dei prezzi nella prima economia del pianeta è più contenuto rispetto alle attese di molti analisti che si aspettavano un maggiore effetto-spinta dei dazi di Donald Trump sui listini. Il problema è che l’impatto della nuova strategia commerciale di Washington non si fermerà qui, con ogni probabilità, e comincerà presto a investire (in modo indiretto) anche noi europei. Cerchiamo di capire perché ma, prima di tutto, partiamo dai dati. I prezzi al consumo negli States, a giugno, sono aumentati del 2,7% su base annua, in accelerazione dal 2,4% di maggio. Su base mensile l’aumento è stato dello 0,3%, dopo lo 0,1% di maggio, il balzo maggiore da cinque mesi a questa parte.
A rincarare sarebbero stati soprattutto alcuni dei beni maggiormente esposti alle tariffe annunciate lo scorso aprile dalla Casa Bianca, tra cui l’arredamento per le case e le apparecchiature per il settore delle comunicazioni. Perché i dazi sulle importazioni dall’estero dovrebbero far salire i prezzi all’interno degli Stati Uniti? Perché le tariffe sono di fatto una tassa sui beni scambiati a livello internazionale. Un pomodoro messicano gravato da un dazio costerà di più per il consumatore statunitense che lo sceglie al supermercato. Vale per i beni di consumo ma in misura ancora maggiore, nel caso degli Stati Uniti, per i beni di investimento: un’azienda statunitense che acquista dall’estero utensili o macchinari per produrre, se questi sono gravati da dazi, si rifarà anch’essa sui consumatori rincarando i listini dei prodotti finiti. Infine c’è un terzo effetto rialzista sui prezzi: le aziende a stelle e strisce, parzialmente «protette» dalla concorrenza internazionale, si potranno permettere di far pagare un po’ di più i loro clienti domestici.
La tensione al rialzo sui prezzi degli Stati Uniti avrà poi effetto indiretto sulle finanze pubbliche del Paese. Come già esplicitato dal numero uno della Federal Reserve, Jerome Powell, il timore di una ripresa dell’inflazione - domata dopo l’exploit post-pandemia - sta posticipando la scelta di ridurre i tassi d’interesse di riferimento, attualmente a 4,25%-4,50%. Di conseguenza potrà crescere ancora il costo del nuovo indebitamento sia privato sia pubblico, fino al punto - ipotizzato da diversi analisti - in cui il debito della super-potenza americana diventerà sempre meno sostenibile e rischierà di vedere addirittura intaccato il suo storico status di «bene rifugio». Se le cose proseguissero in questa direzione, si aggraverebbe infine una dinamica istituzionale pericolosa peraltro già in atto. Il riferimento è allo scontro aperto tra la Casa Bianca e la Federal Reserve, cioè tra potere politico e autorità indipendente di politica monetaria. Ancora ieri il presidente Trump è tornato a chiedere sui social un taglio del costo del denaro, accusando Powell: «Sta soffocando il mercato immobiliare con gli alti tassi di interesse, rendendo difficile soprattutto ai giovani comprare una casa. Li meritiamo all’1%, risparmieremmo 1.000 miliardi di dollari l’anno in costi per gli interessi», ha aggiunto. Un dissidio così aperto, se prolungato nel tempo, alimenterebbe l’instabilità nei mercati.
Non mancherebbero le ripercussioni per noi europei. E non soltanto perché, come ovvio, i dazi costituirebbero per le nostre aziende esportatrici una barriera all’ingresso di un mercato importante e florido quale è storicamente quello americano. In aggiunta, infatti, la situazione descritta sopra - di accresciuto rischio inflattivo, debitorio e politico per gli Stati Uniti - già adesso semina sfiducia nel biglietto verde e contribuisce a indebolire il dollaro rispetto all’euro, rendendo più costosi i prodotti europei negli States e dunque zavorrando ulteriormente l’export. Confindustria ha spiegato di recente che se ipotizzassimo dazi americani al 10% e se considerassimo una svalutazione del dollaro sull’euro del 13,5% (in linea con quanto accaduto da inizio anno), si arriverebbe a un balzello effettivo in percentuale del 23,5% sulle aziende italiane. «L’indebolimento del tasso di cambio del dollaro - ha confermato ieri il ministro dell’Economia Giorgetti - si sta cumulando all’effetto dell’aumento dei dazi commerciali».
Senza contare, ha notato Giorgetti, che una barriera tariffaria eccessivamente elevata tra le due sponde dell’Atlantico renderà l’Europa lo sbocco «naturale» della sovraccapacità produttiva cinese. Da qui potrebbero arrivare spinte deflazionistiche per l’Europa e un’ulteriore penalizzazione della nostra manifattura.
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