I sei mesi di Governo
e le imprese col broncio

Sei mesi di «governo del cambiamento» vissuti pericolosamente, partiti con la fanfara e ora cadenzati dal passo di gambero: lo spettro della recessione, lo spread sempre in agguato, la caduta di investimenti e consumi, l’umore pessimo delle regioni produttive, il braccio di ferro con l’Ue sulla manovra e l’isolamento in Europa, la stretta illiberale sui migranti. Un’Italia fratturata,
in cui i corpi intermedi della società si sentono catapultati nel girone
dei «nemici del popolo».Tutto questo dovrebbe far riflettere l’esecutivo, perché esca dalla bolla speculativa in cui s’è rinchiuso e si misuri con la realtà e non solo con i sondaggi. I giochi linguistici, cioè come trasformare un dietrofront sulla legge di stabilità in un passo avanti, non reggono più all’evidenza quotidiana che non consente di scherzare con il fuoco. Così come gli elementi rituali alla Di Maio, fra indignazione morale e vendetta purificatoria, scivolano sul piano inclinato dell’imbarazzante vicenda del padre.

Teniamo tutti famiglia, eppure l’unione di fatto fra i due populismi deve ancora superare l’esame della responsabilità collettiva. Oggi a Torino sono attesi duemila imprenditori di vario genere per rinnovare un segnale critico al governo sui temi chiave del piccolo sovranismo autarchico che deprimono l’economia: decreto dignità, reddito di cittadinanza, stop alle infrastrutture. Di Maio ha concluso il viaggio fra gli imprenditori veneti e vedremo se sono iniziate le prove tecniche di avvicinamento, ma per ora il Paese reale, quello delle fabbriche e dei capannoni, resta con il broncio dinanzi a certe sordità governative. Che la protesta delle imprese rappresenti la fine di un ciclo o l’attivarsi di uno nuovo (si veda quel che succede nella Francia di Macron, sebbene di segno diverso), e pur con qualche recente contraddizione, indica in ogni caso un’idea di società aperta e segnala una trasformazione in corso d’opera. Impolitica e pragmatica, in giacca e cravatta. Ma il malessere del partito del Pil si configura come un’opposizione sociale per ora senza rappresentanza, che le opposizioni politiche non intercettano, a cominciare dal Pd che in questa fase non tocca palla e su un terreno per lui cedevole.

La ribellione ha per bersaglio la panna montata della decrescita grillina, ma lo stesso Salvini non può chiamarsi fuori. È vero che l’uomo forte del governo gioca ancora in casa fra i produttori, in gran parte suoi elettori, e che i selfie funzionano perché continua ad essere percepito come colui in grado di risolvere i problemi creati dai Cinquestelle. Il leader leghista beneficia tuttora di una linea di credito, però la partita si fa dura e la realtà appare diversa da come la si immaginava. Se il quasi premier Conte deve sempre decidere da che parte stare, se Tria è in fase di ripiegamento autodifensivo e se Di Maio s’è rimpicciolito a leaderino, il mattatore di fatto resta Salvini che ha ribaltato a proprio favore i rapporti di forza usciti dal voto del 4 marzo. Che piaccia o meno. Intascatosi il suo collega vice premier, senza bisogno di sfruttarne le debolezze, e dopo aver fatto la faccia truce con gli immigrati e con l’Europa, il pur applaudito condottiero felpato si ritrova con i limiti di una narrazione unilaterale ormai esauritasi, tutta centrata sull’apocalisse dell’invasione dal Mediterraneo e su un’improbabile «terza via» con l’amico Putin. I fatti dell’economia, che non paiono incontrare le emozioni salviniane, hanno la testa dura, chiedono udienza e presentano il conto. Anche a chi, in nome del popolo, scopre, suo malgrado, un pezzo d’Italia con un altro popolo che non t’aspetti.

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