Il 25 Aprile
memoria viva

Non c’è pace per il 25 Aprile. Ogni anno c’è sempre qualche nota stonata per la data fondativa dell’Italia repubblicana. Lo vediamo anche in queste ore. Il dileggio straccione, sdoganato e orgogliosamente esibito, fa il paio con la voluta ignoranza della Storia. Storia che, si sa, viene letta sempre con le lenti dei contemporanei, modellata sull’uso del momento. Raramente nel dibattito politico c’è una discussione seria sulle ragioni dell’antifascismo, sul perché del fascismo che non fu un’invasione di alieni ma parte dell’autobiografia italiana, sul perché degli anni del consenso al regime, sulle motivazioni di chi andò a «cercar la bella morte» in nome di una causa sbagliata e di un malinteso senso dell’onore, sui tanti conflitti che stavano dentro la guerra civile del ’43-’45 e sulle diverse prospettive politiche che armavano i gruppi partigiani.

Questioni che sono ancora nella carne viva degli italiani. Più di 70 anni dopo, il 25 Aprile ha perso la sacralità – per certi versi pure dogmatica – nell’immaginario collettivo, ma se la memoria può finire per stanchezza anagrafica, resta il peso della Storia: con le sue grandezze e miserie, con i suoi simboli identitari. La lettura storica è un continuo processo di revisione e a questo non sfugge anche la Resistenza. Si discute e si discuterà a lungo sulla necessità e sulla possibilità di ricostruire una memoria condivisa, ma c’è un limite invalicabile: la differenza fra democrazia e il suo opposto, la non equivalenza dei due fronti combattenti.

Quando la politica era una cosa seria, un noto antifascista dialogava così con un noto repubblichino: «Quando comandavate voi io ero in galera, mentre con la democrazia ora siete in Parlamento». Tra antifascismo e Costituzione il nesso è inscindibile: libertà, diritti, doveri, uguaglianza sostanziale, regole della convivenza civile. Tutto il corredo di una democrazia realizzata e matura, il cui grado di civiltà giuridica è misurabile dal diritto al dissenso e dal rispetto dei vinti di ieri e di oggi. Dispositivi che ci sono stati serviti da una classe dirigente con la testa sulle spalle, valori che però consideriamo dati una volta per sempre, l’esito di una consegna che ci spettava per diritto e non di una conquista della libertà: per questo si tende ad una considerazione minima, quasi a svalorizzarli e a volgarizzarli, ritenendoli acqua passata e giocando con parole malate.

Colpisce la banalizzazione, dislocando a margine la tragedia collettiva del fascismo e poi la vittoria della democrazia che hanno segnato il destino di più generazioni. Una banalizzazione che, con le dovute eccezioni, è stata ricorrente nella Seconda Repubblica, all’occorrenza usata per evitare di fare i conti con la propria storia. Una cattiva semina del qualunquismo neutralista che ha lasciato tracce sul terreno: banalizza e banalizza, qualcosa resterà. All’antifascismo non hanno giovato il mito della «Resistenza tradita», l’uso improprio, quasi un passepartout, di questo ideale fuori dal suo contesto, una certa egemonia politica non sempre inclusiva nei confronti di quelle forze politiche che pure hanno contribuito al successo della Resistenza. Ma se il fascismo nella sua forma storica non è alle porte, ci sono dinamiche oltranziste dei nuovi apprendisti stregoni, retroterra culturali, compiacenze e linguaggi che ne hanno permesso l’affermazione e che non sono tramontati.

La liberaldemocrazia non ha l’appeal degli anni d’oro ed è in crisi di consenso. Lo sguardo ad un pezzo d’Europa, a talune cronache italiane e a certi sentimenti ora sotto traccia ora espliciti dice di questo arretramento. In fondo coglie il punto lo storico Guido Crainz, quando scrive che il 25 Aprile è il segnale di un clima, perché esprime il modificarsi della natura del Paese, di come vive il passato e di come prefigura il futuro.

Una specie di sismografo per monitorare inquietudini e maturità di un’Italia che dopo il voto del 4 marzo apre un’inedita stagione: non conosciamo ancora quali siano il patto fondativo e, soprattutto, l’idea di una società che tenga insieme tutti. Un test per verificare se la pedagogia virtuosa dei maestri che hanno fatto l’Italia democratica abbia ancora pieno diritto di cittadinanza.

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