Il certificato, una scelta
responsabile per ripartire

Si scrive «green pass», si legge responsabilità. Qualsiasi altra interpretazione, alla luce dei giorni di terrore passati chiusi in casa, dei lutti, delle sirene senza fine e delle bare dei nostri cari depositate nelle chiese in attesa di sepoltura, non è semplicemente ammissibile. Tanto meno quella della cessione di una quota di libertà in nome di una pseudo dittatura sanitaria, o altre teorie oltre il surreale che sembrano tanto appassionare negazionisti o complottisti da tastiera convinti di avere la verità in tasca o, peggio ancora, di trovarla nel delirio fuori controllo della rete.

«Prevale la tutela della salute» ha sancito ieri la Corte Costituzionale francese, ribadendo un principio assolutamente condivisibile al di là di ogni confine. Da oggi il certificato verde sarà obbligatorio per tutti i luoghi (al chiuso) dove ci sia rischio d’assembramenti, per evitare così di vanificare l’effetto di una campagna vaccinale che sta comunque dando buoni frutti soprattutto in quelle parti del Paese che per settimane hanno visto la morte in faccia e che da tempo sono impegnate in una difficile ripartenza che non può essere vanificata per la scelta di una minoranza. Corposa e rumorosa (soprattutto sui social) quanto si vuole, ma comunque una minoranza. Sul suo grado di responsabilità ognuno poi ha il pieno diritto di avere la propria opinione.

Ma la scelta di applicare il «green pass» da oggi non è una limitazione delle nostre libertà, semmai una maggiore garanzia: anche dal rischio che ognuno di noi ha accettato nel momento in cui ha scelto di vaccinarsi, perché non è stata comunque una scelta a cuor leggero, e bisogna essere onesti nell’ammetterlo. Da una parte la fiducia nella scienza e la voglia (tanta) di tornare alla normalità, dall’altra i timori (legittimi) sul vaccino. Qui non si tratta di dividere il mondo in buoni o cattivi, ma di tenere comunque conto del senso di responsabilità della maggioranza che ha scelto di proteggere se stessa, e quindi anche gli altri, come di chi ha invece preferito non farlo per svariati - e più o meno validi - motivi. Compreso quello di stare a vedere, lasciando a chi si è vaccinato oneri e rischi.

La verità è da questo incubo ne usciremo facendoci anche carico di scelte diverse dalle nostre, o comunque impedendo che possano nuocere a tutti. Per questo motivo il «green pass» è un provvedimento sacrosanto in questo momento storico, così come lo è la scelta di richiederlo a tutto il personale della scuola e dell’università «al fine di garantire la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione in presenza del servizio essenziale d’istruzione» come recita il decreto. E il senso è davvero tutto qui, nella sicurezza e nell’essenzialità dell’istruzione. Perché non possiamo permetterci di giocarci un’intera generazione per l’irresponsabilità di pochi: lo dobbiamo proprio a quei ragazzi che si sono vaccinati per tornare alla normalità e non passare altri mesi di fronte allo schermo di un Pc mentre fuori dalla finestra passavano gli anni più belli della loro vita.

Intendiamoci, tecnicamente parlando il provvedimento è più che perfettibile e ci sono ampi spazi di manovra per limare alcune evidenti contraddizioni. Anzi, sarà fondamentale farlo per evitare interpretazioni bizantine, perché mai come in questo momento c’è bisogno di chiarezza e soprattutto semplicità nel ripartire: lo chiede chi rispetta le regole ed è fondamentale anche per non prestare il fianco a quella minoranza che si muove sul sottile confine tra libertà d’opinione e negazione (inaccettabile) controcorrente di una realtà che abbiamo tutti vissuto sulla nostra pelle e che non vogliamo più rivivere. Anche per questo il «green pass» vuol dire responsabilità: ce la chiedono i nostri cari che non ci sono più e anche quell’80% di bergamaschi che l’ha già in tasca. Perché ne usciremo solo così.

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