Il «no» della Grecia
non aiuta Renzi

Il referendum greco non aiuta Matteo Renzi. I suoi avversari politici stanno indirizzando la propaganda contro il presidente del Consiglio quasi fosse lui il principale sconfitto del voto ellenico, e naturalmente non è così. Ma non c’è dubbio che la vittoria del «no» ad Atene stia aiutando a Roma sia i movimenti anti euro come la Lega di Matteo Salvini o il M5S di Grillo (benché quest’ultimi siano stati non solo ignorati in piazza Syntagma ma anche tenuti alla larga dai vertici di Syriza) sia coloro i quali, a sinistra, contestano la gestione tedesca e rigorista dell’Unione europea e gioiscono con i greci che ad essa si sono ribellati.

Costoro hanno buon gioco nel contestare a Renzi l’atteggiamento, soprattutto nelle ultime due settimane, molto allineato con la cancelliera Angela Merkel e sprezzante nei confronti di Tsipras, tanto da essere l’unico premier in Europa ad aver accreditato l’idea che ad Atene si giocasse «un derby tra la dracma e l’euro».

Una frase che all’interno del Pd non viene perdonata dagli avversari, a cominciare da D’Alema di cui è diventato virale in rete un filmato in cui l’ex premier accusava i tedeschi e i francesi e le loro banche di essersi comportati da vampiri verso i greci. «Renzi sulla Grecia ha sbagliato tutto», si ripete nella minoranza democratica sia tra chi ha deciso di rimanere nel partito sia tra chi sta meditando di seguire Stefano Fassina e Pippo Civati nella loro nuova avventura con Sel e tutta la sinistra radicale: proprio quelli che si ritengono i «vincitori italiani» del referendum greco, nonostante da noi alle ultime elezioni europee la lista «Tsipras-Per una nuova Europa» sia andata incontro ad un velenoso fallimento. In ogni caso, a sinistra hanno rialzato la testa verso un Renzi che fino alle ultime elezioni amministrative era considerato invincibile («l’uomo del 40% alle europee») e che oggi appare a loro come un leader già zoppo.

C’è da aggiungere un’altra condizione di debolezza del premier. Il vertice di ieri tra Angela Merkel e Francois Hollande ci ha tagliato fuori nonostante che l’Italia sia il terzo Paese creditore di Atene dopo tedeschi e francesi, i quali avranno idee diverse sulla Grecia ma preferiscono discuterle tra loro senza terzi incomodi. Palazzo Chigi ha fatto sapere di aver protestato per questo incontro a due, «un formato ormai superato», e di aver preteso la riunione collegiale di oggi, ma nel momento in cui Renzi viene accusato in patria di aver sbagliato sulla Grecia e di essersi appiattito sulla Germania, il guaio per lui è che non riesce a giocare un ruolo da coprotagonista al tavolo europeo che conta.

Queste difficoltà potrebbero aggravarsi qualora i timori per un contagio finanziario dell’eventuale uscita della Grecia dall’euroclub dovessero rivelarsi fondati, e noi fossimo chiamati a nuovi pesanti sacrifici: la legge di Stabilità si preannunciava non ricca né di rose né di altri fiori, e ora rischia di essere appesantita. Acqua gelida su una ripresa economica ancora tossicchiante e incerta, priva di quel vigore di cui ci sarebbe necessità; acqua gelida sulla raccolta del consenso elettorale da parte del Partito democratico renziano.

In questo vicolo in cui la storia lo sta ponendo, Matteo Renzi dovrà dimostrare di essere un leader all’altezza della sfida che viene portata a lui e al suo governo. In fondo sin dall’inizio della sua stagione politica il «rottamatore» ha invocato un’Europa diversa, attenta alla crescita più che all’austerità dei parametri e degli algoritmi; un’Europa della solidarietà e non degli egoismi nazionali. E anche ieri il presidente del Consiglio ha ripetuto che non c’è futuro senza l’apertura di un cantiere che ricostruisca l’Unione e le restituisca la fiducia di popoli che oggi nutrono verso di essa soprattutto rancore.

Ma oltre a pronunciare queste parole suggestive occorre che palazzo Chigi sviluppi una iniziativa europea seria: se questo è il momento in cui c’è chi batte i pugni, sarà il caso che anche l’Italia si faccia sentire. Facendolo, il governo potrà mantenere la spinta che Renzi ha saputo dargli prima che tutto venga ingoiato dalla sempiterna tentazione del «tirare a campare» che, a un certo punto della loro vita, ha condannato a morte i governi di prima e seconda Repubblica.

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