Il processo vero
comincia oggi

Dunque, oggi inizia il processo per l’assassinio di Yara Gambirasio. Quel «dunque» vuol significare che il carico di sentimenti, che parte da lontano, giunge ad un primo approdo nella sede propria: un processo vero, non un reality. Bergamo torna (o rimane) sotto i riflettori nazionali al termine di un’indagine carica di punti esclamativi, di punti interrogativi e di tanti aggettivi, che ha scosso nell’intimo l’opinione pubblica. In questi mesi non c’è stata trasmissione tv che non abbia cercato di indagare la vicenda nel quadro di una discussa slavina informativa, che è tale almeno dai tempi del delitto di Cogne e che giunge a valle esausta per il troppo attivismo.

Ebbene, proprio nel giorno in cui clamore e riservatezza sono destinati di nuovo a configgere, il processo, per sua natura, riporta a casa ciò che gli è stato tolto, restituendo razionalità alle emozioni: un processo dove, come deve essere, si analizzano le prove dell’accusa e della difesa e si tirano le conclusioni, senza guardare in faccia a nessuno e senza essere prevenuti da nessuno. Punto. Ricordando, però, da dove siamo partiti: dall’omicidio di una ragazzina, da un grande dolore. Un dolore privato a dimensione pubblica, penetrato nelle case di tutti, diventando un sentimento di partecipazione collettiva.

È stata, e continua ad essere, una prova di maturità per la nostra terra, come è successo anche per Eleonora Cantamessa, la ginecologa uccisa mentre prestava soccorso. Un peso collettivo portato in spalla con riservatezza e dignità, nel segno della pietas, caratteristiche antiche e distintive che ritroviamo quando solidarietà e dovere civico chiamano. Per certi aspetti si potrebbe dire che in questa circostanza la Bergamasca ha costituito una positiva anomalia rispetto alla tumultuosa esuberanza nazionale. Lo abbiamo colto nel coraggioso riserbo di mamma e papà Gambirasio: proviamo a metterci nei loro panni, nella vita quotidiana con quel nome, Yara, che rimbalza ovunque in modo martellante. Lo abbiamo riscontrato nell’approccio delle comunità locali e delle parrocchie, dove la vicinanza alla famiglia, vissuta nella descrizione, è stato un argine per ricomporre un tessuto vitale e per mettere al riparo la sofferenza, gli affetti più gelosamente custoditi.

Un modo concreto per dire alla famiglia di Yara che non è sola. In una vicenda segnata dall’eccesso, sia del crimine sia dello sguardo altrui, il territorio ha risposto con gli strumenti della normalità, guidata dal buon senso e dalla ragionevolezza. Lo si è visto, e l’aspetto non è proprio marginale, anche quando nell’indagine è finito per poi uscirne un giovane marocchino: nessuna reazione scomposta, nessun atteggiamento improprio. È questo retroterra culturale, una specie di vincolo storico che, nel giorno dell’apertura del processo, può aiutare a contenere l’assedio della passioni, stemperando la febbre degli appuntamenti cruciali. Che va visto per quello che è: un dibattimento figlio di un’inchiesta che, per l’impiego massiccio dello strumento del dna, si pone come un parametro investigativo fin qui inedito.

Anche perché, contrariamente a quel che di solito avviene, l’irrompere della prova scientifica non è giunta in chiusura degli indizi tradizionali, ma s’è imposta prima, quando l’indagine andava ancora riempita: è in sostanza il modulo scientifico che, nell’incredulità, ha costruito l’imputato Massimo Bossetti, una persona comune, come l’inquilino della porta accanto, un nome che non esisteva nell’immaginario collettivo. Il quale è entrato a pieno ritmo nelle tv proprio come personaggio «incredibile», quasi un marziano rispetto al crimine in questione.

Ma anche qui abbiano imparato qualcosa di più, e cioè che, in tempi di tutela giuridica della privacy, il punto d’equilibrio fra il diritto-dovere d’informare e il diritto alla riservatezza è ancora ben lontano dall’essere raggiunto. Una ragione in più per ripensare il rapporto fra questi due mondi, dato che la percezione di assistere ad un processo fai da te costruito nel salotto di casa rischia di essere un fattore di disturbo e fuori posto. Il dibattimento che inizia oggi ha una sua utilità, per così dire pure ambientale, se viene percepito anche da chi s’è già fatto una convinzione nei termini veri e reali: non uno spettacolo, ma un processo che comincia ora e dove i giochi non sono già fatti. Un giusto processo, come si dice in termini tecnici, in contraddittorio fra le parti in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale.

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