Il referendum
è ancora attuale?

Oggi i lombardi sono invitati a esprimere il proprio parere su una maggiore autonomia della Lombardia. La questione è nota: il referendum è consultivo, non ha nulla di vincolante, ma solo un valore politico, che i suoi promotori – dando per scontata la vittoria dei «sì», e a patto che l’affluenza sia soddisfacente, attorno almeno al 50% – sfrutteranno su due fronti, il tavolo delle trattative col governo (dove battere i pugni con maggior forza se gli elettori daranno loro questo mandato) e le elezioni amministrative – e politiche – della prossima primavera, facendo intendere che l’esito del referendum preconizzi anche quello delle elezioni per il nuovo governo lombardo.

Sia che vinca il «sì» sia che vinca il «no», non cambierà comunque nulla. Sorge dunque spontanea una domanda: cosa lo facciamo a fare? Ma per evitare polemiche, meglio spostare la discussione sulla reale utilità dell’istituto referendario. Nessuno contesta il valore intrinseco del referendum quale principale strumento di esercizio diretto della partecipazione popolare alla determinazione delle decisioni pubbliche, ma porre la questione alla luce dei risultati fino ad oggi emersi da questo genere di consultazioni (in particolare quelle abrogative), sembra legittimo. Dal 1974 (divorzio) ad oggi, i referendum abrogativi sono stati 17 (per decine di quesiti) ma nel 40% circa dei casi non hanno raggiunto il quorum, e ciò spiega bene le difficoltà in cui l’istituto sembra navigare. «Regole d’ingaggio» troppo superficiali? Forse. Strumento troppo abusato? Forse. Quesiti spesso incomprensibili? Forse. Strumento i cui risultati sono stati talvolta «neutralizzati» dalla politica, cui non piacevano? Forse. Insomma, pensiamoci su.

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