Il rumore dei soldi
e l’urlo dei disperati

Questa sera non riesco a lavorare, leggere, scrivere… niente. La mia coscienza viene continuamente visitata da immagini di morte. Non è la morte che mi infastidisce e mi lacera. Da tempo ho imparato che il morire è dimensione costitutiva dell’esistenza di ciascuno di noi, quella dimensione che contribuisce a rendere così unica la mia vita e quella degli altri.

No, non è questo che mi sconvolge. La morte causata come rischio calcolato per il proprio reddito, è questo che mi uccide, che erode la mia sensibilità e la mia umanità. Non riesco a sopportare l’idea che qualcuno pensi di fare più soldi possibili stipando persone nel fondo di una nave, seppellendo così la speranza sotto qualche mazzetta di migliaia di euro.

Naturalmente, ancora una volta, ci saranno proclami, indignazione dichiarata, promesse. La tristezza è che tutti sappiamo che, dopo qualche momento di smarrimento e sbigottimento, tutti ritorneremo alla nostra vita, così ricca e così povera. L’emozione, le lacrime, avranno lavato e drenato il nostro cuore e noi ci ritroveremo più poveri di prima, perché insieme alle immagini, avremo lasciato andare nella discarica anche noi stessi. Siamo talmente abituati all’idea che tutto è misurabile in produttività e denaro, che ormai non ci impressiona nel profondo che qualcuno guadagni anche sul viaggio della disperazione di altri.

Qualcuno ha detto che i campi di concentramento sono stati la realizzazione ultima della ragione disponente, una sorta di fabbrica della morte che la tecnica è riuscita a mettere in campo per la distruzione di un popolo. Oggi quella razionalità, quella del guadagno con il minor spreco di risorse, sta trasformando il mare in una tomba: le acque del mare non si chiudono sui carri e i cavalli del Faraone, ma sul respiro di uomini, donne e bambini che hanno scelto il viaggio come ricerca di possibilità.

Noi, che siamo gli eredi, in Occidente, della concezione nobile di quella ragione; noi che abbiamo scoperto i diritti che esprimono l’altezza e la bellezza della libertà, non siamo capaci di azioni efficaci e significative per dire che quell’ultimo respiro soffocato dalle acque e dai dollari risuona come un grido nella nostra coscienza. È come dire che la sicurezza della nostra quotidiana esistenza è la rivendicazione assoluta, è il rumore più forte che copre ogni altro grido o sospiro.

Una grande tristezza, aggravata dal fatto che noi abbiamo contribuito all’esodo di quelle persone. Abbiamo decostruito i loro Paesi al grido di «democrazia!», abbiamo bombardato, alfieri dell’esportazione dei diritti, ma – in realtà – lo abbiamo fatto, lo sappiamo, per mettere al sicuro risorse, contratti, possibilità economiche e politiche: solo chi bombarda ha poi il diritto di ricostruire. Mettici anche l’ingrediente religioso, la possibilità di giocare la carta della divinità per giustificare l’identità nazionale che assicura il potere e il gioco è fatto.

Ci sarà un domani diverso? Verrà un giorno in cui l’esercizio del potere, sia esso economico o politico, senta la necessità di superarsi in ciò che ci rende più umani? Quando ritroveremo l’idea che l’ospitalità è la cifra che caratterizza la nostra vita sin nelle sue radici più profonde? Quando riscopriremo che il nostro sì all’altro nell’accoglienza è, di fatto, già una risposta al fatto che l’altro ci ha detto sì, ci accoglie e rende così vivibile la nostra esistenza? E quando arriveremo a comprendere che la politica e l’economia sono umane solo se si mantengono in questa relazione?

È una lunga via quella che dobbiamo intraprendere. Sappiamo bene che le risorse sono limitate, sappiamo che la vita è anche inevitabilmente conflitto. Forse quello che non sappiamo più è che il conflitto lo si sente se, insieme, si sente l’altro e si rimane nella relazione con lui. Si tratta di uscire dall’idea che il «diritto» è una rivendicazione per il proprio benessere, e iniziare a pensare che esso è l’espressione di un appello, che ci chiama a deciderci per una vita che è umana solo quando lascia che l’altro entri nella nostra vita, anche con il suo odore di putrefazione e di morte.

L’Europa, l’Occidente, non metteranno fine alla propria decadenza senza fare i conti con questa dimensione fondamentale dell’esistenza. Rimangono l’angoscia e la tristezza, rimane la vergogna per le strumentalizzazioni politiche di questa ecatombe. Speriamo solo che queste morti ci aiutino a farci comprendere che l’indifferenza ci farà perdere noi stessi, il senso della convivenza civile, della democrazie, che noi avremmo paradossalmente la pretesa di esportare. Nulla si può esportare se non è accompagnato da un’esposizione di sé che comunichi praticamente la propria intenzione di far vivere l’altro. La giustizia non è una parola, ma una vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA