In italia debutta
Il ministro dell’alterno

Un’inedita figura istituzionale si sta affermando nel nostro ordinamento giuridico: il ministro dell’Alterno. Si tratta, in realtà, di un ardito esperimento, che si concretizza nel connubio di più funzioni, che si intersecano e si completano per costruire un profilo adeguato al governo del cambiamento. Il ministro di nuovo conio è «alterno» perché si alterna nei ruoli e nei luoghi; ma può anche essere alterno – dalla radice latina «alter» – perché diventa «qualcun altro».

Egli può ricoprire – a secondo delle esigenze – il ruolo di ministro delle Infrastrutture, oppure di ministro dell’Economia. Dipende dalle priorità politiche del momento. Oltre che alternarsi nelle funzioni, il ministro è alterno nelle modalità. Sia comunicative sia di fatto. Nel suo procedere si intersecano costantemente toni sbrigativi e atteggiamenti concilianti; sparate grossolane e ossequi formali; irridenti guasconate seguite da accorte ritirate strategiche. Un bagaglio multiforme di rumorose entrate in scena, di fulminei ingressi sui social media, di sgusciante abilità nell’eludere le domande, di magistrale capacità di spostare l’oggetto del contendere. Quello che in gergo viene comunemente detto «altrovismo».

Il ministro – oltre che alterno – è anche «altro da sé», hegelianamente parlando. Riesce a farsi piccolo piccolo, quando serve. Afferma, con evidente modestia, che può permettersi di stare molto poco al ministero, poiché l’apparato può funzionare egregiamente anche senza la sua presenza. Circostanza peraltro assolutamente vicina al vero. Se un giornalista gli fa osservare che sembra comportarsi spesso come se fosse il capo del governo, egli si schermisce, negando assolutamente di aver invaso ambiti non di sua competenza. Su questo piano il ministro ha una particolare abilità nello svicolare – ad esempio – minimizzando settimane fa il senso di una dichiarazione nella quale era arrivato a dire: «Non c’è presidente del Consiglio che tenga», riferendosi a un alt che era stato lanciato da palazzo Chigi nei suoi confronti. Oppure «delegando» il premier Conte a rispondere in sua vece in Parlamento. Un vero e proprio assurdo istituzionale.

Nei fatti, la pretesa modestia è nient’altro che una maschera. Il ministro sconfina sistematicamente dai territori di sua competenza, definiti dalle leggi e sottoposti – per principio costituzionale – all’azione di coordinamento del presidente del Consiglio. Una libertà di manovra – non ben vista dal premier, ma da lui tollerata – basata su una modalità precisa e studiata a tavolino. Il ministro dell’Alterno ama mettere i partner di governo di fronte al «fatto compiuto». Interviene nelle sedi più disparate per illustrare l’azione di governo, o convoca le parti sociali al Viminale per parlare della manovra economica per il 2020. Compiti che spetterebbero al capo del Governo, ma che vengono disinvoltamente assunti legandoli, in modo arbitrario, alle funzioni di sicurezza. Nella «narrazione» salviniana la convocazione al Viminale assume anche un significato recondito, simbolicamente rilevante. Dal 1922 ai primi anni repubblicani quel palazzo era sede della presidenza del Consiglio oltre che del ministero dell’Interno. Tant’è che una parte dell’austero palazzo è tuttora nota come «ala presidenza».

Siamo, in sintesi, in presenza di un ircocervo politico: un ministro di lotta e di governo, che occupa spazi altrui nel dettare l’agenda governativa e, contemporaneamente, critica l’azione dell’esecutivo nei casi di scelte a lui non gradite. Il profilo ideologico di Salvini «multiministro» è, a sua volta, una combinazione frutto di singolari incroci. Un uomo politico marcatamente di destra, con tratti evidenti di xenofobia, che ama adottare modalità espressive alla Che Guevara; un uomo che ostenta il bacio al Crocifisso, alternandolo alla totale mancanza di pietà nei confronti di persone derelitte. In un Paese che ha conosciuto e sofferto vent’anni di dittatura quella del ministro dell’Alterno non è esattamente una presenza rassicurante.

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