Italiani (giovani)
in fuga dall’Italia

Nel 2015 il numero degli italiani che hanno la loro residenza registrata all’estero è aumentato più di quanti sono stati gli extracomunitari sbarcati nel nostro Paese. In termini assoluti le regioni che hanno registrato maggiori uscite di emigrati italiani sono la Lombardia e il Veneto. Ancor prima di essere buoni o cattivi questi sono dati, nudi dati, presentati ieri dall’undicesimo rapporto di Migrantes, un organismo della Conferenza episcopale italiana.

Semplici numeri che la dicono lunga su quanto spesso pretestuosi sono i dibattiti politici di moda nei talkshow e nelle campagne elettorali. Ecco le cifre: gli italiani iscritti all’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero) al primo gennaio erano 4,8 milioni, 174.516 in più di 12 mesi prima, in totale il 7,9% rispetto agli italiani residenti in Italia.

Nel computo netto delle varie tabelle i nuovi emigrati italiani nel 2015 sono stati 107.529, dei quali 20.088 dalla Lombardia e 10.374 dal Piemonte; seguono nell’ordine Sicilia, Lazio, Piemonte, Emilia-Romagna. Fra le classi di età la più rappresentata è quella dai 18 ai 34 anni con il 36,7% (poco meno di 40.000 emigrati); gli over 65 sono il 6,2% (6.572). Segnaliamo questi due dati perché in essi si nascondono molti di quelle due categorie delle quali si è tanto parlato in questi mesi: i cervelli in fuga e gli anziani che vanno a godersi la pensione percepita dall’Inps in quei Paesi in cui si pagano meno (o niente) tasse e la vita è meno cara, dalla Romania al Portogallo.

Mentre si spendono ogni giorno fiumi di parole sulla costruzione di muri, assistiamo dunque a un via vai biblico di persone tra Paesi e continenti. Tant’è che il presidente di Migrantes, Guerino Di Tora, ha potuto chiosare che «il fenomeno migratorio non è episodico, è epocale», descrizione di un fatto prima che giudizio.

Pierferdinando Casini, intervenuto alla presentazione del Rapporto nella sua qualifica di presidente della commissione Esteri del Senato, ha potuto trarre la facile conclusione che lo Stato prima spende per istruire cittadini altamente qualificati che se ne vanno a produrre all’estero, poi spende per accogliere e istruire coloro che immigrano. Saldo doppiamente negativo e i muri, si sa, non sono mai riusciti a fermare i soldi. Per far tornare i conti bisognerebbe ideare politiche complesse in grado di comporre i vari elementi, non reazioni isteriche a episodi, incapaci di progetto.

Pranzavo proprio ieri con una ragazza inglese che dopo avere passato diversi anni a lavorare nel nostro Paese ora se ne torna in patria, spaventata dalle possibili ritorsioni che potrebbero esserci verso gli inglesi dopo l’annuncio del premier di quel Paese di voler stilare elenchi di cittadini stranieri che lavorano in Gran Bretagna ai quali togliere ogni tipo di benefit. Per una che si spaventa e si sente costretta dalla ottusità altrui, decine di migliaia che sfidano un mondo che vorrebbe far delle frontiere altrettante barriere. Giovani che partono e sfidano il bla bla delle polemiche partitiche. Perché, purché non costretta, come ha detto il capo dello Stato Sergio Mattarella nel messaggio a Migrantes, «la mobilità dei giovani è una grande opportunità che dobbiamo favorire: devono poter liberamente andare all’estero e liberamente poter tornare».

Il quadro offerto dal Rapporto 2016 non è quello di emigranti con la valigia di cartone; ma è un quadro che si confronta con le immagini dei naufraghi annegati sulle carrette del mare. Compito della politica dovrebbe essere quello di gestire un fenomeno epocale e non cercare di esorcizzarlo: non si è mai vista una rete di filo spinato fermare le onde dell’oceano. Al massimo può far sanguinare le nostre paure.

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