La giustizia fallibile
e la politica suddita

Nelle ultime settimane le aule dei tribunali hanno emesso sentenze sulle quali varrebbe la pena avviare un dibattito finalmente serio riguardo al rapporto malato fra giustizia, politica e informazione.

Ignazio Marino è stato assolto ieri nel processo che lo vedeva imputato di peculato e falso in relazione all’utilizzo della carta di credito assegnatagli a suo tempo dall’amministrazione capitolina. L’ex sindaco di Roma è stato assolto anche per l’ipotesi di reato di concorso in truffa per compensi destinati a collaboratori fittizi quando era il rappresentante legale di una associazione non profit che aveva fondato per portare aiuti sanitari in Honduras e in Congo. Ancora ieri la stessa sorte è toccata a Roberto Cota. L’ex governatore del Piemonte è stato infatti assolto (perché il fatto non sussiste) insieme ad altri 15 imputati dall’accusa di truffa per le «spese pazze» in Regione (dieci consiglieri sono stati invece condannati per peculato).

A metà settembre la Cassazione aveva messo il sigillo finale al processo che vedeva imputato per abuso d’ufficio Vincenzo De Luca, confermando l’assoluzione. Al centro del processo la nomina di un manager nell’ambito di un progetto per la costruzione di un termovalorizzatore a Salerno, quando De Luca era il sindaco.

La giustizia fa il suo corso, si dice. E le assoluzioni sono il segnale di un sistema giudiziario che non condanna i politici preventivamente. Tutto bene quindi? Non proprio, perché i processi che hanno chiamato in causa Marino (ex Pd), Cota (Lega) e De Luca (Pd) furono casi roboanti dati in pasto all’opinione pubblica dall’ineffabile circo mediatico-giudiziario. Con il corredo folcloristico (ricordate le mutande verdi di Cota, pluricitate nelle cronache sulla «Rimborsopoli piemontese»?) e gli scontri all’arma bianca dentro i partiti: la Commissione Antimafia presieduta da Rosi Bindi, anche lei del Pd, definì De Luca «impresentabile» quale candidato alla presidenza regionale della Campania proprio perché coinvolto nell’inchiesta dalla quale è uscito pulito, dopo otto anni...

Anche Bergamo ancora a metà settembre è stata toccata da un caso, durato sei anni e mezzo: Daniele Belotti era finito sotto inchiesta per una serie di intercettazioni telefoniche fra lui e il leader della Curva Nord atalantina, Claudio «Bocia» Galimberti. Secondo l’accusa quei dialoghi facevano dell’attuale segretario provinciale della Lega l’ideologo del capo ultrà e si sono tradotti nell’accusa di concorso esterno in associazione per delinquere. Accusa archiviata dalla Cassazione. Una prima considerazione riguarda la politica, vittima della propria debolezza. Usare le sentenze e gli avvisi di garanzia come una clava per colpire l’avversario è un clamoroso autogol: non è degno di chi deve dare una risposta ai problemi del Paese anche in questo ambito.

Ma nei partiti c’è una sorta di sudditanza al giustizialismo del senso comune, quasi a voler pagare dazio al giacobinismo degli anti casta e del «tutti ladri, tutti a casa» che ammorba il dibattito pubblico, al quale l’informazione nazionale ha lisciato irresponsabilmente il pelo, anche sposando spesso acriticamente l’onda grillina (salvo poi frenare quando pure i 5 Stelle hanno ricevuto l’attenzione delle Procure). Per anni non è stato possibile un ragionamento serio sulla giustizia perché Silvio Berlusconi aveva monopolizzato il tema (o si stava con i magistrati o con l’ex premier, senza se e senza ma). Eppure in quegli anni tanti ignoti rimasero vittima della malagiustizia, senza meritare parole garantiste, perché il clima era quello e guai a chiamarsi fuori. Ma la questione è davvero seria, come sa chiunque sia stato coinvolto con la propria persona in un’indagine o abbia messo piede nell’inferno delle carceri italiane.

Una seconda considerazione riguarda la magistratura. L’evidenza che «la giustizia fa il suo corso» non può bastare a giustificare l’ostinazione e la ricerca della ribalta mediatica nel sostenere inchieste che toccano la politica. Non è compito dei pm indagare il malcostume, ma solo cercare fatti di reato. Il populismo penale è una malattia che chiama in causa non solo il Parlamento e l’informazione, ma anche le stesse toghe.

La Costituzione italiana è tornata d’attualità nella campagna in vista del referendum del 4 dicembre prossimo che vede politici, opinionisti e magistrati schierati su fronti opposti. Tutti a discettare sull’intangibilità della Carta o sulla sua riformabilità. Nessuno mette in discussione articoli quali il numero 27, che dice: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Cominciassimo finalmente ad applicarla la nostra cara Costituzione...

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