L’accordo
Italia-Cina
Capitali a rischio

Per i cinesi è una bella notizia. Il prossimo 21 marzo in occasione della visita del presidente Xi Jinping in Italia il governo italiano firmerà il cosiddetto Memorandum of understanding, ovvero l’accordo preliminare per la Via della Seta. Si tratta di favorire l’interscambio fra i due Paesi e soprattutto di permettere ai cinesi l’accesso ai porti italiani, in particolare Venezia e Trieste. Gli operatori economici potranno esportare in Cina senza complicazioni o vincoli. La Francia per esempio vende vino a Pechino e dintorni sette volte tanto l’Italia. Merito dei francesi che quando vanno in visita al celeste impero fanno sistema. E per far questo non hanno avuto bisogno di firmare un accordo di rilevanza geostrategica.

Infatti Parigi, Berlino, Londra si guardano bene dall’impegnarsi in modo così connotativo. Angela Merkel esprime il timore che dietro questa offensiva cinese vi sia poi una strategia di acquisizione di dati sensibili attraverso le sue società presenti in Europa. La tecnologia 5G di nuova generazione viene gestita da Huawei, accusata di utilizzare le sue reti per poi raccogliere dati e informazioni utili ad acquisire un vantaggio competitivo. Del resto anche in Italia il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) negli ultimi anni ha avvisato sul fatto che le agenzie di cybersicurezza mondiali diffidano delle società di telecomunicazione cinesi e le escludono dagli appalti per le infrastrutture critiche.

La Gran Bretagna ha trovato punti di accesso incontrollato nella rete 5G ed ha chiesto a Pechino garanzie anti spionaggio e anti-blocco. Questo spiega quindi perché il passo italiano sia seguito con attenzione e con ansia dagli alleati occidentali. Il Financial Times ha titolato in prima pagina sull’apertura italiana agli investimenti cinesi non senza rimarcare che gli Stati Uniti sono preoccupati. Il tutto mentre a Roma si discuteva di Tav e di possibile crisi di governo. Presi dalle baruffe quotidiane i politici italiani perdono di vista l’orizzonte strategico del loro operare. Del governo cinese si può non condividere la vocazione autoritaria e il sistema non democratico che lo sottende ma non certo la sua capacità di programmare a lungo termine. Nella prospettiva di penetrazione del mercato europeo e di lacerazione dell’unità di intenti del mondo occidentale la scelta dell’Italia è stata centrata.

Un’economia che langue e che i dati Eurostat pubblicati in questi giorni dolorosamente fotografano. La nostra Lombardia sulla quale si puntano le carte del riscatto ha un Pil pro capite di 38 mila euro, che sembrano tanti ma relegano la regione non solo dopo Amburgo, la Baviera, Bruxelles, l’Ile di France ma dietro a Bratislava, Praga e Varsavia. Il primo degli ultimi e l’ultimo dei primi per il territorio più avanzato della penisola. Nell’indice di competitività l’Italia è 31ª, la Spagna al 26° posto, la Francia al 17° su su fino alla Germania al terzo posto e alla Svizzera al quarto. Si capisce quindi che un Paese in queste condizioni e con un debito tra i più elevati al mondo ha bisogno di capitali come dell’aria che respira. Pechino glieli offre e il governo italiano pensa di guadagnarci. La Via della Seta attraverso il canale di Suez porta non solo merci ai porti italiani, ma posti di lavoro. L’Italia ha perso fiducia nell’Europa e si volge a Oriente. Non si accorge di irritare gli alleati americani così come sta già irritando quegli europei. È in viaggio solitario ma non è l’Ungheria o il Portogallo. Siede nel G7 e se rompe gli indugi con la Cina si tira fuori dalle sue alleanze. La Cina potrà anche acquistare titoli di Stato italiani ma a quel punto il prezzo lo fisseranno a Pechino.

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