Le forza di Conte
nei limiti altrui

Il primo atto della crisi di governo si è concluso alla Camera secondo le attese: una maggioranza non ampia (321 sì) ma pur sempre una maggioranza assoluta. La vera prova arriva questa mattina, anzi questa sera quando i senatori, ascoltate le parole di Giuseppe Conte, decideranno se concedergli o meno la fiducia che chiede a nome del suo governo. E a Palazzo Madama, come è noto, la partita è assai complessa anche se per certi versi il finale dovrebbe essere già scritto: la campagna per l’arruolamento dei «responsabili» che, da «costruttori» adesso sono diventati «volenterosi», non ha dato i risultati sperati e non ha consentito di raggiungere la metà più uno dei senatori: sì certo, diversi parlamentari sparsi, perlopiù naufraghi di altri gruppi, sono stati convinti dalle offerte di Palazzo Chigi, ma è venuto a mancare il gruppetto dei centristi che avrebbe fatto la differenza.

E questo per la ragione che la coalizione che fa capo a Salvini, Meloni e Berlusconi è riuscita a serrare i ranghi: esponenti storici del moderatismo come il segretario Udc Cesa o l’azzurro Maurizio Lupi sono rimasti nel loro recinto ottenendo in cambio un riconoscimento politico che veniva loro negato da tempo. Per ora non ha raggiunto le loro orecchie l’appello di Conte a «europeisti, popolari, liberali e socialisti» per dare voce ad un’area moderata del Paese che potrebbe vedere nel premier un punto di riferimento.

Ma veniamo al discorso del presidente del Consiglio, un discorso orgoglioso, di chi sa di poter esibire - anche in questa circostanza - una forza obiettiva che deriva sia dall’emergenza pandemica (che finora lo ha puntellato sulla poltrona) sia dalla paura generalizzata di elezioni anticipate che farebbero quasi certamente vincere il centrodestra regalando a Salvini e Meloni la poltronissima del Quirinale. La forza di Conte sta nella debolezza altrui: questo gli consente di chiudere definitivamente la porta in faccia a Matteo Renzi («Si volta pagina») ma non ai renziani, di fare appello ai volenterosi e nello stesso tempo di voler rimanere in piedi anche con un governo di minoranza. Poi più avanti si vedrà che fare, ma intanto Conte intende rimanere saldo in sella garantendo la stabilità che Mattarella su tutto pretende dai partiti e dal governo. Certo, con i numeri risicati sarà ben difficile governare, e Conte deve pagare i prezzi che finora è riuscito a schivare: cederà ad un sottosegretario la delega sui servizi segreti, farà il rimpasto ministeriale e non terrà l’interim del ministero dell’Agricoltura lasciato libero dalla renziana Bellanova, rimetterà mano al Recovery Plan, non ostacolerà una legge elettorale a base proporzionale. E chissà, potrebbe persino portare in aula il Mes.

A ben guardare sono esattamente le cose che Zingaretti, come Renzi, chiedeva da mesi senza ricevere soddisfazione. Ora il segretario del Pd potrà dire di aver ottenuto quel «cambio di passo» che insistentemente invocava da tempo. Nello stesso tempo i democratici potrebbero aver messo ai margini Matteo Renzi in qualche modo chiudendo i conti aperti con la scissione di Italia Viva. Viceversa Renzi viene almeno temporaneamente lasciato fuori dei giochi nonostante i segnali di pace lanciati da diversi suoi fedelissimi proprio verso Conte (che li ha rispediti al mittente). L’ex premier si consola prevedendo tempi bui per il governo: «Verrà il momento della verità e sarà bellissimo». Si tratta di aspettare sulla riva del fiume. Per il momento però la barca di Conte ha buone probabilità di non affondare e, si sa, in politica è meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Lo diceva spesso uno che se ne intendeva.

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