Le vittime oltraggiate
La pietas ferita

Ma che succede? Ieri è stata imbrattata con la sigla Br la stele che ricorda i cinque uomini della scorta, uccisi nella strage di via Fani di 40 anni fa, quando fu rapito Aldo Moro. Qualche giorno fa scritte deliranti («Marco Biagi non pedala più») sono apparse sui muri della facoltà di Economia dell’Università di Modena dove insegnava il giuslavorista assassinato dalle nuove Br 16 anni fa. Nel frattempo un’ex brigatista s’è esibita in un inquietante settarismo, una caratteristica permanente dei terroristi non recisa del tutto: «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere».

Tutto questo succede in un momento particolare, se non nevralgico, della storia italiana sia per un ritorno, qua e là, di schegge di violenza sia per la disinvoltura con cui si attaccano le istituzioni. In un Paese che non ha fatto i conti sino in fondo con la violenza, e con le sue radici antiche e talvolta insospettabili, e che non riesce ad onorare mai a sufficienza i suoi martiri, ogni anniversario dei crimini che appartengono alla memoria collettiva ripropone snodi irrisolti.E in particolare uno, il più delicato perché il più umano, in quanto capace di abbracciare nel più intimo una dimensione pubblica e privata: la pietas verso le vittime, che vanno protette, pur a distanza di tempo, dal ritorno di parole malate e cattive, espulse dalla convivenza civile.

Meglio: verso tutte le vittime, perché non ci può essere gerarchia di ricordi. Lo sfregio di ieri che ha colpito gli agenti e i carabinieri della scorta di Moro si riveste così di una duplice carica di violenza: si accanisce su servitori dello Stato, il cui ricordo – se così si può dire – è schiacciato dal fatto di essere persone non note e di subire una memoria riduttiva rispetto ad uno statista come il presidente Dc. Come fossero, in sostanza, figli di un dio minore, là dove invece – lo ha ricordato un ex magistrato dell’antiterrorismo, Carlo Nordio – dal punto di vista umano e civile la vita di questi uomini in divisa era altrettanto preziosa quanto quella di Moro. Se l’offesa ci restituisce la necessità di un ricordo collettivo, l’altra questione riguarda il rapporto fra media e terroristi, fin dove cioè – nella ricostruzione storica – si può spingere la voce di chi ha ucciso (pentito, dissociato o mai pentitosi sul piano giudiziario), senza che questo diventi un oltraggio. Questo limite in alcuni casi è stato superato anche stavolta con vecchi arnesi lessicali, da parte di quelli che certo non erano estranei ai fatti, ma attori e autori di stragi e di omicidi. Persone sconfitte con il diritto e con la politica e che non possono riproporsi come oracoli in uno spazio pubblico, rimessi in cattedra, in una sorta di improponibile riscatto, da intervistatori fin troppo arrendevoli.

Non sempre c’è stato il contraddittorio, perché il limite invalicabile è solo uno ed è chiaro: la distinzione fra chi ha ucciso e chi è stato ucciso, fra chi ha agito da criminale e chi ne è stata vittima. Si è caduti di nuovo nella trappola di un «perverso ribaltamento», come l’ha definito il capo della Polizia Gabrielli, confondendo ruolo e posizioni, mentre sotto traccia è al lavoro la scia di una certa ambigua compiacenza, un abbozzo di quel neutralismo che 40 anni fa era il risvolto occulto di una contiguità con i brigatisti. Siamo ben lontani dal pentimento autentico, fuori dalla legislazione premiale, dal reinserimento nella società e dagli itinerari della giustizia riparativa che fanno il loro corso se e quando ci sono le condizioni individuali, ma qui, per discrezione, ci si deve fermare, perché si entra in nicchie insondabili. C’è un frammento di cronaca che, però, può dire molto in questa prospettiva. Ad una precisa domanda di chi scrive, la vedova del giudice bergamasco Guido Galli, ucciso da Prima linea, rispose così, con la forza dell’umanità: «Perdonare? Mi rivolgo al buon Gesù».

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