L’Europa smemorata
sull’orlo dell’abisso

La nostra Europa è sull’orlo dell’abisso. Come sonnambula va rapidamente verso l’autodistruzione. L’Europa d’oggi appare in preda a un terribile dejà vu. I suoi fermenti autodistruttivi rievocano quelli di cent’anni or sono, quelli del 1914, quando una generazione di sonnambuli, che comprendeva politici di governo e di opposizione, opinioni pubbliche e molti intellettuali, andò incontro alla guerra in totale inconsapevolezza, un guerra che avrebbe precipitato tutti nell’abisso.

E tuttavia il mondo è molto diverso da allora. Anche la condizione europea. Allora il nazionalismo era percepito come una grande forza integrativa e progressiva. Non aveva ancora rivelato il suo lato oscuro. Oggi il suo lato oscuro lo ha rivelato appieno. Non solo nelle stragi di guerre, grandi e piccole. Anche nei costanti litigi e nelle costanti angherie incrociate che hanno avvelenato la convivenza di etnie e di religioni diverse in tanti spazi e in tanti tempi dell’Europa degli ultimi cent’anni. Soprattutto oggi, nell’età della globalizzazione, prospettare l’autosufficienza delle singole nazioni europee urta contro ogni principio di realtà, e non soltanto per immediate considerazioni economiche.

I morbi letali

Tanti europei dei nostri giorni, non vivendo un futuro, prendono la strada del passato, la cui distruttività è celata dalle ambizioni di piccoli leader che per i loro tornaconti personali seminano paura e angoscia. L’Europa di quelli che vengono chiamati populisti è in realtà un’Europa dell’oblio: spaccia per nuove le soluzioni dell’altro ieri e ignora i morbi letali a cui queste soluzioni hanno portato.

All’Europa dell’oblio non può che contrapporsi un’Europa della memoria, che sappia narrare come, all’indomani della seconda guerra mondiale, la generazione dei padri fondatori delle odierne istituzioni europee aveva compreso appieno che la salvezza raggiunta era improbabile e ancora provvisoria. E che per aprire la strada verso il futuro bisognava affermare un deciso «mai più» nei confronti di tutto ciò che aveva distrutto materialmente e spiritualmente il nostro continente: grandi totalitarismi, piccoli autoritarismi, nazionalismi ed etnicismi incrociati. Venne allora affermata la prospettiva della condivisione, la prospettiva di un gioco a somma positiva: se condividiamo le risorse, invece che combattere per il loro possesso, vinciamo tutti quanti. Allora si pensava soprattutto alle risorse materiali, carbone e acciaio, per il cui possesso Francia e Germania si erano svenate senza venire a capo di nulla. Oggi le risorse sono sempre più immateriali, e soprattutto sono risorse umane: non a caso la libera circolazione delle persone nel grande spazio europeo comune è oggi precondizione per ogni ambito professionale e scientifico.

Un inedito futuro globale

L’Europa della memoria non è un’Europa passatista. Al contrario. L’idea della condivisione affermata allora deve ancora svilupparsi appieno per dare i suoi frutti maturi. Per la condivisione delle materie prime e dei manufatti forse sono state sufficienti le istituzioni faticosamente costruite in tanti decenni. Per la condivisione della progettualità e dell’impegno per costruire un inedito futuro globale si impone un salto coraggioso verso un’Europa federale, con un governo e un parlamento veramente sovrani che complementino le sovranità nazionali. Lo impongono tutte le presenti crisi, che minacciano di fare implodere dall’interno ogni nazione europea. Lo impone la crisi del lavoro, minacciato sia dagli squilibri economici e finanziari del turbo-capitalismo sia dalla diffusione di un’automazione non governata e non umanizzata: crisi che impone senz’altro una riprogettazione della distribuzione del reddito e delle relazioni sociali. Lo impone la crisi geopolitica globale, che è stata efficacemente definita come la «perdita di ogni sicurezza»: l’Europa è circondata da ogni parte dalla linea di faglia dei peggiori conflitti del mondo d’oggi, che ormai si sono incancreniti sulle coste meridionali e orientali del Mediterraneo, e non riesce a intervenire per agevolare una necessaria pacificazione perché priva di una voce, di una prospettiva, di un’autorità unica.

Squilibri oligarchici

Lo impone la crisi ecologica ed energetica, che comporta non solo il riscaldamento globale, ma anche una riduzione della qualità della vita in molti ecosistemi locali: soprattutto comporta una distribuzione squilibrata e oligarchica delle risorse energetiche. L’Europa continua a pagare costi molto pesanti per ottenere le energie fossili e continua a essere titubante rispetto a un investimento significativo sulle energie rinnovabili, le uniche in grado di democratizzare la distribuzione energetica e contemporaneamente di contribuire a stabilizzare il clima e a riqualificare gli ecosistemi.

Oggi i fronti del conflitto tra l’Europa dell’oblio, populista e neonazionalista, e un’Europa della memoria e della progettualità che ancora fatica a sorgere sono molto dislocati e frammentati, e attraversano ogni Paese europeo e perfino ogni governo. I neonazionalismi in Europa hanno molte facce, però tutti quanti convergono nell’inquinare l’immaginario di individui e collettività. Prospettano la regressione a un passato fantasmatico, che non ha mai avuto luogo, e al quale è agevole conferire attributi di armonia e benessere per contrastare il disordine e il degrado del presente.

Ferite ancora brucianti

Questa strategia non è nuova e nel passato recente l’abbiamo vista operare con l’idealizzazione della Serbia medievale da parte di Slobodan Milosevic. Oggi la vediamo all’opera in quasi tutta l’Europa centro-orientale. Abbiamo scoperto a spese nostre quanto il nazionalismo, anche in forme chiuse, abbia costituito una forza di resistenza a cui appellarsi nei decenni del dominio sovietico. La rapidità degli eventi fra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso ha quasi bloccato la possibilità di comprendere come la divergenza di tanti decenni della vita associata nelle due parti di Europa avesse arrecato un lascito pesante: così non si è dedicata la cura dovuta a risanare ferite ancora brucianti, forse convinti che bastasse la liberalizzazione economica e trascurando la necessità di elaborare insieme nuove narrazioni comuni.

Libertà e diritti

Ma il fronte di crisi che si è aperto anche nell’altra parte di Europa, con la Brexit, è stato provocato da una divisione analoga dell’opinione pubblica del Regno Unito. E il muro di Calais è il simbolo di questa autodistruzione dell’Europa: il nuovo «Muro di Berlino», che questa volta non visualizza due mondi separati geograficamente e ideologicamente, ma divide al suo interno l’Europa delle libertà, dei diritti, delle solidarietà. Anzi, simbolizza che questa separazione lacera all’interno «ogni» luogo d’Europa. Un grande filosofo del Novecento scrisse che non abitiamo il mondo: abitiamo le nostre rappresentazioni del mondo. L’oblio ci schiaccia nel passato; la memoria ci apre al futuro. E una grande poetessa durante la tragica guerra dei Balcani degli anni novanta scrisse: «Vivere in un solo mondo è prigionia» L’immaginazione conosce e costruisce la realtà più dei calcoli di un’economia miope. Perché ne conosce e ne libera le possibilità inedite.

Il sonno della ragione si manifesta nel sonno dell’immaginazione e della speranza, e oggi nel trionfo del calcolo astratto, astratto dai bisogni di chi soffre e tende la mano per un bisogno di vita. Ma è proprio questa mano tesa che può salvare l’Europa. Dal suo interno e dal suo esterno. Perché l’Europa non è un territorio, non è una «Fortezza». Quando si è rappresentata così si è incamminata verso la sua autodistruzione. L’Europa è una civiltà inedita. O sarà l’Europa della democrazia, della solidarietà, dei diritti umani, o non sarà.

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