Il popolo di Pontida
è rimasto padano

Alla vigilia dell’incontro con Berlusconi, Matteo Salvini, nel bagno di folla a Pontida, ha eluso il tema principale della Lega: i rapporti e i livelli di leadership con l’ex Cavaliere e con gli altri partiti di centrodestra. Mai pronunciato il cognome Berlusconi.

Solo un cenno, «Non mi interessano le alleanze partitiche», e in più il consueto attacco ad Alfano, cosa che il Carroccio non si nega mai. Forse il raduno a Pontida non era il luogo più adatto per parlare di queste questioni «fredde». E in effetti, come avviene da 25 anni, anche per la nuova Lega di questo quarantenne vale la mozione degli affetti più della politica in senso stretto. Nello storico pratone che ha incubato successi e sconfitte è andata in scena la Lega di sempre, quella del tempo che fu, oggi in cerca di un futuro che promette di essere generoso. In questi mesi, della Lega con il vento favorevole si è detto del suo fidanzamento con Marine Le Pen, del suo farsi nazional-nazionalista, del suo espandersi in territori ostili. Una transizione per condurla verso altre prospettive, oltre la gabbia nordista. Qualcosa della Lega <nazionale> si è vista anche qui, perché non era mai successo ospitare sul palco degli oratori due voci meridionali.

Ma il colpo d’occhio, gli striscioni («Italia di m...»), le parole e gli umori rinviano alla casella di partenza: alla esclusiva fratellanza padana, e possiamo chiamarla autonomismo o indipendentismo. Niente di nuovo, almeno in apparenza. Le parole d’ordine del popolo leghista rimangono quelle: stavolta meno folclore ed esuberanze celtiche, ma il cuore pulsa pur sempre da quel lato. La stessa proiezione estera s’è fermata al rappresentante ticinese, madame le Pen non pervenuta. Salvini cerca di andare oltre, ma deve portare il gruppo parlamentare e il partito sulle sue posizioni, che non sono esattamente queste. Osservata da Pontida, la Lega «italiana» non piace più di tanto e gli stessi militanti non paiono afflitti da preoccupazioni lepeniste: considerano sì l’Europa la fonte di tutti i mali, ma non pensano, a differenza della destra radicale francese, che la soluzione sia lo Stato nazione. Difficile dire quanto nella post Lega di Salvini conti la vecchia guardia: comunque sia, dal pur ridimensionato Bossi e da Calderoli, oltre che dal responsabile dei giovani padani, è venuto uno stop annunciato.

Un traghettamento pieno d’insidie per il segretario ed è per questo che Salvini s’è mosso con circospezione: «La Lega non cambia», ha detto più volte e con lui un po’ tutti i big. Rassicurare che il partito-movimento non taglia le proprie radici, benché il bossismo sia confinato ai margini. Ed è così che Salvini ha ribaltato la frittata, puntando l’artiglieria pesante contro il governo, e soprattutto contro Renzi: se la Lega è dipinta come l’imprenditrice della paura e del rancore, ecco che queste accuse vanno trasferite sull’esecutivo, peraltro in palese difficoltà.

L’applausometro dice che gli acuti polemici contro il premier superano di gran lunga l’offensiva contro l’immigrazione clandestina: neppure a Prodi erano stati riservati così tanti vaffa, segno che il premier e leader del Pd è il vero avversario per un partito che intende vincere alle prossime politiche, come annunciava il manifesto alle spalle del palco. La stessa ruspa, simbolo di questo raduno e piazzata in bella mostra a ridosso del palco, è stata trasformata da strumento bellicoso in un arnese del «sudore e della fatica dei lavoratori italiani»: utile ad asfaltare Renzi e solo in un secondo tempo da impiegare contro i campi rom. Anche sull’immigrazione, consapevole di non poter superare una certa soglia, il segretario non ha aggiunto benzina a quella già sparsa a piene mani nei giorni scorsi, lasciando semmai il compito di guastatore a Maroni.

Nel proporre un’agenda di governo tarata sul sociale e sul lavoro e in cui spicca la flat tax (tassa unica per tutti al 15%), l’intento di Salvini è stato quello di proporre una Lega normale, che non fa nulla di eccezionale, di guidare appunto il Paese alla normalità. Quella dell’Inghilterra di Cameron e peccato che ci siano anche l’Ungheria del Muro anti immigrati e la Russia di Putin: diavolo e acqua santa. La stessa scenografia di Salvini, attorniato sul palco da numerosi bambini accompagnati dai genitori, oltre ad una strizzata d’occhio al Family day di Roma, ha voluto essere l’immagine tranquillizzante di una Lega del «come eravamo», tutta casa, lavoro, territorio e dai confini chiusi. Integrando la sinfonia padana alla media del senso comune che gioca in difesa, Salvini ritiene di aver proposto una Lega «normale» e dunque di governo. Qualche dubbio è necessario.

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