Manca una linea chiara
di politica industriale

La controversia sui migranti prende tutta la scena, ma prima o poi il governo dovrà misurarsi anche con la questione del Nord, e in particolare del Nordest: in lista d’attesa e in cerca di una compiuta rappresentanza. Ricominciando dalla sciagura di Genova, e andando oltre. Il non sopito malessere territoriale della punta di lancia della seconda manifattura europea è stato derubricato nel contratto Salvini-Di Maio: cacciato dalla porta, è tuttavia rientrato dalla finestra, uscendo dalla penombra. Sia per quanto riguarda la competizione Lega-Cinquestelle, dove i due elettorati non si sovrappongono sul lavoro e sulle grandi infrastrutture, sia in relazione al rapporto centro-periferia.

A quasi un anno dal referendum sull’autonomia in Lombardia e in Veneto, tutto tace. Anzi: si vedono in giro più smemorati che sostenitori, mentre il governo vira nella direzione opposta e Di Maio, con il circo allestito attorno all’Ilva di Taranto, conferma la linea antindustriale che colpisce al cuore il territorio manifatturiero del Nord con vocazione all’export: cioè la piccola e media impresa. Il mondo produttivo, a cominciare da Confindustria, dà segni di nervosismo, tanto più che le parti sociali non sono ancora state convocate dall’esecutivo. Potrà forse ottenere qualcosa attraverso la flat tax (nella versione morbida delle due aliquote), ammesso e non concesso sia compatibile con il reddito di cittadinanza: vedremo qualche spezzatino, con gradualità, un parto lontano dalle attese. Il quarto capitalismo del Nord ha, poi, tutto da perdere dalla guerra con Bruxelles, considerando anche che in Regioni come il Veneto i Fondi comunitari vengono spesi al meglio. I ritardi sulle infrastrutture rischiano di essere devastanti sul sistema del Nord: pensiamo soltanto alla ricaduta della Tav, l’alta velocità Lione-Trieste che riunisce l’area economica europea che nel 2016 ha generato un Pil di 1.191 miliardi di euro, più grande di quello della Spagna e dei colossi meridionali della Germania. Il dibattito del dopo Genova, sostenuto dal vento neostatalista, impatta sulla natura del capitalismo fai-da-te del Nordest.

Qualche riflessione autocritica su una presenza più autorevole della mano pubblica s’impone dopo l’ottimismo global degli anni ’90 e alla luce dei deficit dell’architettura delle concessioni autostradali: senza ripetere gli errori dello Stato-padrone degli anni ’70 e senza screditare il pubblico dinanzi al mito del privato. Il nodo da sciogliere è come interagiscono i due poli: pubblico e privato. Se l’economia non è lo zerbino della politica, questa non è un settore del management al servizio dei gruppi di pressione. Le contraddizioni paiono abitare a Roma, nel governo, più che in periferia, visto che la linea dei governatori del Nord, quelli del «vecchio» centrodestra, appare funzionale da tempo: alleanza pubblico-privato in mano agli enti territoriali. Quel che manca nell’esecutivo è una linea chiara e decifrabile di politica industriale, dell’importanza di puntare molte carte sui settori industriali storici. Perché il Nordest, la prima linea produttiva che s’era consegnata a Berlusconi-Bossi-Tremonti per ritrovarsi con Salvini-Di Maio, incrocia tutto nel bene e nel male: lo spread costato 4 miliardi, le previsioni al ribasso della già modesta crescita del Pil, la fuga di capitali dall’Italia (72 miliardi di euro tra maggio e giugno), gli investimenti pubblici scesi da 54 miliardi nel 2009 a 34 l’anno scorso. Se ne parlerà con la legge di bilancio, l’appuntamento con la razionalità dopo la rumorosa estate sovranista a Milano Marittima: il ritorno alla realtà dirà se andiamo avanti o indietro.

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