Marijuana light
Festival dell’ipocrisia

«Marijuana light» in vendita in un distributore automatico di una tabaccheria a Treviglio. È l’iniziativa di un negoziante che non può non lasciare sconcertati, in questo festival dell’ipocrisia: la libertà di vendita di questa sostanza è dovuta al fatto che contiene una percentuale inferiore allo 0,6% di sostanza psicotropa (il Thc) e quindi non rientra tra quelle proibite dalla legge. Sulle confezioni comunque si precisa che l’uso della sostanza «è da intendersi soltanto per ricerca, sviluppo, uso tecnico o collezionismo, non è destinato al consumo alimentare, farmaceutico o sostitutivo del tabacco». Su altre confezioni si può leggere l’avvertenza più sintetica: «Materiale per uso tecnico non atto alla combustione».

In realtà chi la compra, lo fa solo per fumarla. Negli ultimi mesi in Italia si è assistito ad un vero boom, con oltre 400 negozi aperti in pochi mesi e un giro d’affari ancora embrionale ma calcolato intorno ai 50 milioni di euro. C’è una catena in franchising napoletana che nell’arco del 2017 ha superato i 40 punti vendita.

Ovviamente quando il mercato spinge e il profumo degli affari si fa più attraente, la narrazione riguardo a fenomeni come questi si ferma a livello della curiosità di costume. C’è una strategia per far passare come normale un fenomeno che non può essere considerato normale. Tutto avviene un po’ sottotraccia, con aperture di piccoli punti vendita contrassegnati da un’inattaccabile cultura green. Poi i venditori un po’ sconcertati devono fare da consulenti a genitori che sperano di dirottare i propri figli dalla cannabis vera e propria a questa che sembra più un sedativo. Insomma, siamo di fronte a quella solita confusione in cui si finisce con il minimizzare tutto. Sino al momento in cui si scopre che qualcuno sta mettendo questa «marijuana light» anche nei distributori automatici, al fianco delle sigarette, per quanto sulle confezioni si avverta che non è articolo da fumo. Paradossalmente, la decisione di quel tabaccaio trevigliese ha avuto una involontaria ricaduta positiva: ha acceso l’attenzione dell’opinione pubblica su questo fenomeno che si diffondeva in un clima semiclandestino. Ora sappiamo che in Italia si sta vendendo a man bassa una sostanza per la quale non c’è una destinazione d’uso. Una sostanza che secondo le norme del testo unico per il commercio, non si potrebbe neanche vendere, per ammissione stessa, nel corso di un’intervista a «La Stampa», del fondatore di una delle catene di franchising in maggiore crescita. Un qualcosa che sta nel limbo di un non detto, che però per i paladini della cultura antiproibizionista rappresenta un fatto simbolicamente importante, un piccolo muro abbattuto sulla strada di una progressiva liberalizzazione. Quello che inquieta in questa vicenda, più che la portata in sé del singolo episodio, è questo silenzioso processo di normalizzazione a piccoli passi del consumo di sostanze; un processo che avviene un po’ sotto banco, tra mille non detti, e con una generale tendenza alla minimizzazione.

In questo caso la «marijuana light» contiene cannabidiolo, una sostanza che agisce sul sistema nervoso producendo un effetto di rilassamento. Robe da poco, si dirà. Sarà probabilmente roba da poco: ma perché allora sulle confezioni ci si è premurati di evidenziare che non è sostanza destinata al fumo? È l’atteggiamento pilatesco di un sistema che non volendo mettere dei punti fermi, accetta dei continui e impercettibili smottamenti delle regole. Invece è bene ricordare che siamo in un Paese che è secondo in Europa per consumo di cannabis: un ragazzo su cinque la fuma con discreta regolarità. Ora chi ci garantisce che la «marijuana light» non sia in realtà una porta d’ingresso alla marijuana vera?

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