Musulmani contro l’Isis
È un segnale

Chiamato ad abiurare pubblicamente l’ideologia mortifera dell’Isis, l’islam italiano è sceso ieri in piazza pronunciando parole inequivocabili contro il terrorismo. Sulla conta dei presenti (pochi o tanti?) si sono subito esercitati coloro che guardano alla galassia dei seguaci di Allah con pregiudizio negativo. Ma non è questo (pochi o tanti) il punto.

Si è trattato di un gesto concreto e non scontato. Il mondo musulmano attraversa un momento storico di passaggio, che può avere approdi positivi anche in ragione delle risposte che l’Occidente saprà dare.

Del resto già nei giorni seguenti alla strage di Parigi, imam e comunità islamiche avevano preso posizione apertamente contro gli jihadisti. In Francia, in Italia e altrove. Il Gran Mufti d’Egitto, Shawki Allam, ha definito l’estremismo «una perversione della condizione umana» e invitato ad «evitare di demonizzare i musulmani senza motivo, non per salvaguardare i musulmani, ma perché la nostra futura capacità di eradicare il flagello del terrorismo dipende dalla nostra collaborazione». Restare sul piano delle enunciazioni non basta più. Eloquenti, a questo proposito, le parole pronunciate in un’intervista ad «Avvenire» dall’imam Tareq Oubrou, rettore della Grande moschea di Bordeaux: «Esistono forme di discorso religioso conservatore che surrettiziamente offrono materia al radicalismo e all’integralismo. Occorrerebbe una riforma radicale della teologia e del diritto canonico musulmani, che sono stati forgiati nel Medioevo in una logica imperiale e califfale di dominio. Il mondo è cambiato, la globalizzazione ha creato tante situazioni in cui occorre imparare a diventare una minoranza e accantonare le teologie di dominio. Come le altre religioni, l’islam deve apprendere a vivere con l’altro nella sua differenza. Dobbiamo rivedere i nostri testi teologici e canonici per ripensare la nostra religione all’interno di una globalizzazione dove civiltà, culture e religioni sono frammiste. Non esistono più mondi isolati». Un passaggio complicato anche dal fatto che l’islam è diviso al suo interno (non solo tra sunniti e sciiti) ed è privo di un’autorità centrale (come il Papa della Chiesa cattolica, per intenderci) che possa imporre una riforma valorizzando gli aspetti migliori della tradizione musulmana, conciliandoli con le libertà (quella religiosa per prima) e con i diritti fondamentali. Passaggi che richiederanno tempo ma inevitabili se l’islam vuole affrontare positivamente il rapporto irrisolto con la modernità.

Da parte nostra dobbiamo innanzitutto abbandonare l’abitudine alle facili etichette, per altro affibbiate in base alle convenienze. Per anni commentatori accreditati dalle tv italiane hanno usato come sinonimo di Arabia Saudita la dicitura «Paese islamico moderato». Moderato in quanto alleato degli Usa ma anche della Francia (la monarchia di Riad è il principale acquirente di armamenti d’Oltralpe e quest’anno, versando 12 miliardi di dollari a Parigi per l’acquisto di reattori nucleari, ha salvato la multinazionale francese dell’energia Areva dal fallimento). Eppure in Arabia Saudita ha germogliato lo whahabismo, movimento radicale dell’islam sunnita che insiste su un’interpretazione letteralista del Corano ed ha formato schiere di jihadisti. Proprio in questi giorni a Riad è stato condannato a morte il poeta palestinese Ashraf Fayadh, per aver rinunciato alla sua religione. L’accusa contestata è di aver «dubitato dell’esistenza di Dio». Forse è il caso di chiarirci le idee sul vasto mondo dell’islam.

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