Patto di Arcore
Bobo nella riserva

Il centrodestra sta costruendo la sua coalizione: lo fa con una certa fatica, scontando differenze politico-strategiche e diffidenze personali, ma lo fa. Il vertice dell’altra sera ad Arcore ha segnato alcuni punti comuni e questo ci dice che il lavoro va avanti, agevolato dai sondaggi favorevoli. Salvini ha accettato in casa la cosiddetta «quarta gamba» centrista che non voleva; Berlusconi ha acconsentito a mettere nel programma la cancellazione o quasi della legge Fornero come chiedeva il giovane partner. Questo progresso tuttavia non diminuisce l’incertezza che fa da sfondo alla ricostruzione dell’alleanza di tre partiti che, sia pure con alti e bassi, sono insieme dal 1994.

Il simbolo di incertezza di prospettive ha finito per prendere le fattezze di Roberto Maroni, governatore uscente della Regione Lombardia. Ora, di per sé non ci sarebbe alcun motivo per dubitare di quanto Maroni dice, e cioè che non intende ricandidarsi per «ragioni personali». Se uno vuol cambiare vita, ha tutto il diritto di farlo. E tuttavia proprio le caratteristiche incerte della campagna elettorale alimentano in queste ore molte dietrologie, alcune francamente spericolate, altre con qualche fondamento, sull’atteggiamento dell’ex pupillo di Umberto Bossi. Vediamo perché.

Tutti hanno capito che l’intesa dell’Epifania tra Berlusconi, Salvini e Meloni potrà funzionare se la coalizione vincerà e conquisterà la maggioranza dei seggi al punto da poter mettere in piedi un governo sorretto da una maggioranza autosufficiente. In quel caso il presidente del Consiglio spetterebbe al partito con più voti, questo dice l’accordo. Se la Lega superasse Forza Italia la poltronissima toccherebbe a Salvini. Ma se ci fosse una sostanziale equivalenza o Forza Italia superasse la Lega, Berlusconi, che per le note ragioni non può tornare a Palazzo Chigi, dovrebbe scegliere. Serve quindi un delfino: finora si sono fatti molti nomi, da Antonio Tajani a Carlo Calenda (fin quando il ministro non ha chiarito che il suo campo è quello del centrosinistra). Poi sono arrivate le dimissioni di Maroni, il dirigente leghista della «vecchia guardia» che ha con Berlusconi un rapporto stagionato nel tempo e che non ha condiviso alcune prese di posizione di Salvini. Sarebbe la quadratura del cerchio: difficile per Salvini dire no a Maroni se Berlusconi lo incoronasse in nome di una rassicurante coalizione non populista da presentare in Europa senza nervosismi. Se il governatore lombardo dice non mi ricandido «ma resto a disposizione, non vado in pensione», un significato lo avrà.

Ma facciamo il caso che le elezioni non producano un vero vincitore, e si debba arrivare ad un governo «di larghe intese». In quel caso Berlusconi, lo ha già detto, sarebbe favorevole, e i centristi con lui, a stringere la mano a Renzi in funzione nazionale e anti-grillina. Salvini invece no: voleva addirittura andare dal notaio per mettere nero su bianco un impegno «anti-inciucio». Ecco dunque che il patto dell’Epifania potrebbe sfarinarsi di fronte ad una necessità istituzionale sollecitata dal Quirinale. Per mettere insieme una maggioranza e un governo servirebbe in quel caso una personalità «di raccordo»: potrebbe essere Gentiloni, se il Pd avesse un buon risultato. Ma potrebbe essere Maroni se fosse il centrodestra a dare le carte. Maroni: stimato ex ministro dell’Interno, ex governatore della Regione più importante e produttiva d’Italia, leghista come Salvini ma lontano dai lepenismi, apprezzato da Berlusconi e da sempre uomo del dialogo con gli avversari di centrosinistra. Bingo. Come si vede, scenari, ipotesi, congetture. Ne faremo tante, da qui al 4 marzo. Ma oggi mettiamo questo punto: Maroni si è messo nella «riserva».

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