Patto di stabilità
Ossigeno ai Comuni

Ci sono ancora non pochi problemi da risolvere, ma questa volta la spallata benigna c’è stata. Con lo sblocco del Patto di stabilità per i Comuni deciso con la manovra finanziaria del governo finisce una stagione di circa 15 anni e da non rimpiangere. Gli enti locali tornano a respirare con due polmoni: entrate, ma anche uscite e dunque investimenti.

La svolta è il volto territoriale di una Legge di stabilità che riduce le tasse (sulla casa nel nostro caso) e che promette di sostenere la crescita. L’archiviazione di questa camicia di forza si aggiunge alla possibilità di impiegare gli avanzi di amministrazione che metteranno in circuito milioni di euro per gli investimenti. Il meccanismo del Patto di stabilità non lasciava scampo: i Comuni, chiamati in prima linea a sostenere il risanamento del bilancio pubblico nazionale, dovevano risparmiare una quota delle entrate, lasciandola parcheggiata senza poterla utilizzare. Nessuna distinzione fra buoni e cattivi. Sommando i vari tagli e la riduzione dei trasferimenti da Roma, il risultato è stato il sacrificio della manutenzione e degli investimenti.

Non c’erano alternative, anche perché nei pochi spazi di manovra le amministrazioni locali hanno dato la precedenza alla tutela dei servizi sociali, già sottoposti a cura dimagrante: oltre non si poteva andare. «Lacrime e sangue», uno standard che se da un lato ha indebolito il partito dei sindaci e alzato il livello del contenzioso con i governi di questi anni, dall’altro ha reso precario il rapporto con i cittadini-contribuenti. L’esito ha avuto il sapore di una beffa e la matematica è diventata un’opinione: più tasse, meno servizi e minori entrate per gli stessi Comuni.

Quasi una magìa. I conti non tornavano: il federalismo fiscale delle entrate s’accoppiava al centralismo delle uscite, dato che era lo Stato a decidere la quota dei risparmi e ad indicare le aree dove intervenire per raggiungere gli obiettivi. Il riaccentramento nelle mani statali resta comunque un tratto del governo Renzi e del resto la «corrente toscana», in tema di campanili e municipi, non ha la sensibilità dei lombardi che ha invece radici storiche. Il centralismo in parte è obbligato dalle politiche europee e, per le Regioni, è imposto da certe derive della malapolitica: lo vedremo meglio con le riforme costituzionali che aggiornano i rapporti fra centro e periferia a svantaggio dei territori.

Il centralismo a taglia unica e lineare penalizza, come sempre, i virtuosi. Lo riscontriamo con i trasferimenti legati alla spesa storica (tanto hai speso negli anni e tanto riceverai per il futuro) e qui forse la partita sta imboccando la strada giusta per arrivare ai costi standard, con i quali cioè si individuano precisi criteri per evitare di premiare gli spendaccioni e punire i virtuosi. L’esempio è quello della siringa: non si capisce perché da noi, poniamo, debba costare 1 e altrove 5 riducendo così la copertura finanziaria a chi risparmia. In questo ambito il legislatore è al lavoro e qualcosa di buono comincia a vedersi nella sanità.

Ma se nel complesso l’orientamento verso i Comuni sta prendendo una piega positiva, resta incerta la prospettiva delle Province, questione che nella Bergamasca ha una sua urgenza (squilibrio fra città piccola e grande territorio esterno con 242 Comuni, dei quali un’infinità sono piccoli): tutto da noi, dall’intreccio politico e istituzionale, dai servizi all’associazionismo, ha dimensioni e logiche più provinciali che cittadine. È un terreno accidentato per la riforma Delrio e nell’impatto con vicende storiche come le nostre sconta un deficit nei confronti della realtà: le Province smagrite e impoverite nel loro ruolo sono un qualcosa di inafferrabile. Non si capiscono missione e natura, quale debba essere il rapporto con il capoluogo, e una revisione sarebbe opportuna per evitare soluzioni pasticciate e del tipo fai-da-te. Una scelta, quella del governo, che deve molto alle concessioni populistiche e anticasta e che riguarda peraltro un ente istituzionale dall’esperienza dignitosa: si è deciso un discusso rimedio per una malattia che abita altrove.

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