Politica, il voto
e la piazza

Le grandi difficoltà nelle quali si dibatte oggi la democrazia inglese, alle prese con la «Brexit», dovrebbero far riflettere gran parte delle democrazie occidentali. Occorrerebbe chiedersi, ad esempio, se i referendum rappresentino sempre e comunque un sostegno ai processi democratici, oppure rischino talvolta di contribuire al loro depauperamento. Di certo, viviamo in un contesto sociopolitico nel quale sta prendendo sempre più spazio il principio «grezzo» secondo cui in democrazia il voto popolare sia alla base di ogni autorevolezza sociale e che occorra a tutti i costi «farsi eleggere» per essere legittimati ad affermare qualunque cosa abbia un valore «politico». Al cospetto di tale svilimento del più ampio e nobile concetto filosofico del «fare politica», le reazioni appaiono timide e male argomentate.

Nella classe politica si è ormai consolidata una pericolosissima paura di perdere consensi elettorali affermando che per la legittimazione di un sistema democratico non serva soltanto la procedura del voto e del consenso popolare, bensì occorra anche il contributo delle varie «autorità indipendenti» e di tutte quelle istituzioni che costituiscono i necessari «contrappesi» in grado di evitare l’emersione di poteri individualistici o, ancora peggio, assoluti. Insomma, che il legittimo potere del popolo sovrano risieda non solo nella piazza o nella folla, ma che, una volta espresso, debba essere esercitato dal Parlamento. È in Parlamento che le istanze del popolo, attraverso i rappresentanti scelti, hanno il diritto di trovare legittimità, ascolto, mediazione, costante tensione verso il bene comune. Questo indispensabile patrimonio di civismo era ben presente nei Padri Costituenti che tracciarono con efficacia e chiarezza i lineamenti del nostro sistema democratico rappresentativo e furono, peraltro, molto cauti circa il ricorso ai referendum.

In particolare, non ammisero i referendum sui temi della tassazione e della politica estera, avendo ben presente i conflitti d’interesse e quelli di competenza generale nell’uno e nell’altro caso. Sarebbe dunque quanto mai opportuno, oggi, chiedersi perché questa visione della democrazia rappresentativa si sia così tanto appannata. Tra le varie ragioni, la più importante è certamente individuabile nel diffuso degrado della cultura civica, che rappresenta la «cultura politica della democrazia». Molto evidenti sono oggi i segnali di tale degrado: il distacco dei cittadini dalla politica e dai partiti dei quali si fida solo il 5% degli italiani; il continuo peggioramento della qualità media, professionale e morale, del ceto politico; il prevalere, in ogni campo, di personalismi e particolarismi che allontanano dalla percezione e dalla ricerca del bene comune; la sfiducia, specie nei giovani, verso le istituzioni; il ruolo diseducativo rispetto ai valori civili esercitato da gran parte dell’informazione, in primis quella televisiva; l’indebolimento della solidarietà sociale, con crescenti manifestazioni di xenofobia e volontà di ghettizzazione. In presenza di tale situazione, appare molto opportuna la proposta da più parti avanzata di reintrodurre nella scuola dell’obbligo l’insegnamento dell’educazione civica, al fine di rimuovere alle radici gli ostacoli culturali e sociali che impediscono ai giovani di svolgere un ruolo propositivo nella società.

Un’esigenza analoga emerse negli anni Cinquanta quando, con l’introduzione nelle scuole dello studio della Carta Costituzionale, si pensò di fornire un contributo significativo alla crescita democratica di una popolazione cui era affidato il compito della ricostruzione del Paese, dopo una guerra mondiale e venti anni di dittatura. Riprendere e ampliare quell’esperienza sarebbe certamente utile, sempre che sia preceduta da un’adeguata e specifica formazione degli insegnanti affinché, a seconda dei livelli di insegnamento cui sono assegnati, siano messi in grado di fornire ai giovani tutti gli elementi necessari per una più consapevole partecipazione alla vita democratica del Paese.

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