Referendum
scelta tra due sistemi

Le scelte serie dividono ed è il caso del referendum costituzionale. Non è una banale alternativa fra il Sì e il No, ma fra due sistemi politici. Entrambi con pari dignità, però con effetti diversi: il primo cambia il quadro giuridico-politico (la cui efficacia, nel caso, andrà verificata nella pratica), il secondo lo mantiene. È un prendere o lasciare. Due mondi distanti senza l’alleggerimento di un’area di confine protetta, che esprimono il conflitto fra due progetti di società da consegnare a più generazioni: la Costituzione è questo, una finestra sul futuro, una bussola che orienta il cammino di un popolo.

La Carta del ’48 va maneggiata con la cura e l’affetto che si riservano alle cose che contano, ma non è un testo sacro e riprenderne il filo per aggiornarlo è un modo per riaffermarne la vitalità. Si continua a sbagliare inseguendo la piccola politica, la cucina fra propaganda e colpi bassi, il duello rusticano su accostamenti impropri, distorcendo così il senso di un istituto, il referendum, che già non gode di fortuna in questo periodo.

Eppure va sottolineata un’aspettativa urgente ma inascoltata: si vota su una proposta di riforma costituzionale, e solo su questo, che va sottratta alle passioni politiche in senso stretto e restituita alla consapevolezza di ordine storico sul peso e sul valore della Costituzione. Un’occasione per rifondare intorno alla «casa di tutti» la cultura politica, sapendo che non possono esistere istituzioni perfette o soluzioni miracolistiche: l’equilibrio passa attraverso il bilanciamento.

All’appuntamento del 4 dicembre si arriva quasi per sfinimento, nella convinzione che questo è l’ultimo treno: due anni di dibattito parlamentare e 173 sedute, 6 mesi di campagna elettorale. Il nuovo dettato modifica 43 articoli della seconda parte della Costituzione: un paio in più, e in un colpo solo, di tutti quelli cambiati fino ad oggi. Più di una manutenzione ordinaria, ma sempre all’interno di una democrazia parlamentare. Si supera il bicameralismo perfetto, anomalia italiana: il Senato, smagrito nei numeri, non farà più lo stesso mestiere della Camera diventando l’assemblea della rappresentanza delle istituzioni territoriali e svolgendo tanti altri compiti, a partire dal controllo legislativo. Secondo capitolo delicato: le Regioni, dopo la non felice riforma del 2001, avranno meno competenze a vantaggio dello Stato ma, con il regionalismo differenziato, chi ha i conti a posto potrà ottenere più prerogative legislative e amministrative. Il bastone e la carota, come insegna l’illustre Giovanni Sartori, teorico liberale dell’ingegneria costituzionale. L’intento, contrastato, è cancellare due peccati originali: avere due Camere con identici poteri ed essere l’unico Stato regionale senza un ramo del Parlamento che rappresenti i territori. L’orizzonte teorico è una democrazia messa nelle condizioni di decidere, di razionalizzare e semplificare il processo legislativo e non solo di dare cittadinanza a società complesse.

Lo stesso dibattito sulle riforme che ha impegnato almeno 5 governi in oltre 30 anni s’è mosso su questa linea, confermata dall’elezione diretta di sindaci e governatori. Come ha scritto «Civiltà cattolica», quella in questione è una «parte tutt’altro che neutra, che però va considerata come l’ennesimo tentativo di sviluppo del dettato costituzionale nel tempo». È come se dietro le quinte si muovessero le due idee classiche di democrazia impersonate dal Sì e dal No, la cui utilità storica varia a seconda dei contesti delle società: la visione maggioritaria concentra il potere nelle mani della maggioranza, più idonea a promuovere i mandati di governo, mentre l’impronta consensuale disperde il potere e pone l’accento sulla rappresentanza di maggioranza e opposizione. Ecco perché è corretto parlare di due codici culturali in opposizione.

La riforma mira a rafforzare stabilità ed efficienza del governo, correggendo un difetto originario coltivato dai costituenti, benché avesse giustificazioni nella Guerra fredda: la reciproca sfiducia fra democristiani e comunisti, dato che prospettavano un’alternativa non di governo ma di sistema, fra l’essere filo occidentali o filo sovietici. Il compromesso fu quello di lasciar fuori stabilità e governabilità, affidandole ai partiti di massa, al negoziato in Parlamento. Il sistema ha retto a lungo, è entrato in crisi con l’assassinio di Moro nel ’78 per schiantarsi con Tangentopoli e il crollo del Muro: l’esaurirsi della forza propulsiva dei partiti di massa, del ruolo guida delle culture costituzionali s’è riflessa nel tramonto della «Repubblica dei partiti» e del modello della centralità del negoziato in Parlamento. Queste ci sembrano le radici storiche di una riforma che intende mettere ciò che allora non s’è potuto attuare.

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