Referendum, big bang
per destra e sinistra

La campagna elettorale del referendum costituzionale sta diventando, suo malgrado, un magnete che attira a sé vecchie e nuove questioni irrisolte dei partiti. Se non vogliamo inserirla nella logica della resa dei conti, possiamo definirla come la distruzione creatrice prodotta da un meccanismo interno inarrestabile: scomporre per ricomporre con l’obiettivo del big bang. Una maionese impazzita che sarà servita all’indomani del voto, il 5 dicembre. Il Pd è a rischio implosione e questa stabile instabilità rappresenta ormai un dato normale.

Renzi all’indomani dell’investitura di Obama, rilancia la battaglia sulla manovra finanziaria contro Bruxelles anche con il retropensiero che difendere l’interesse nazionale vuol dire intercettare l’elettorato moderato necessario al Sì, voti fin qui indisponibili pure per il Pd nuova maniera.

Significa, dunque, sapere cosa succede dall’altra parte dove Berlusconi è corteggiato dalle due anime del Pd e assediato dall’ala nordista di Forza Italia e, soprattutto, dalla Lega. Se il Sì ha un solo leader, Renzi, nel No la gerarchia è apparentemente contendibile, ma se c’è un nome su tutti, questo è Grillo. Il No di Berlusconi ha il basso rendimento di una calcolata difesa d’ufficio: almeno oggi è così, domani si vedrà. Non nega affatto il No, ma nell’affermarlo senza convinzione lo circonda di mille cautele, mettendolo dietro le quinte: ha scelto pure, in stretto politichese, l’equilibrismo di un «No costruttivo». Questo tatticismo esasperato riguarda l’oggi e il domani di una duplice partita: interna agli azzurri e nei rapporti di forza con Salvini e in prospettiva con Renzi, più che con il governo in sé.

L’ex Cavaliere (e quella parte del suo elettorato per il Sì) resta comunque al centro dei giochi, benché da mesi non sia più indiscusso e in tempi recenti, per qualche ardito dei suoi, neppure indispensabile. Ha liquidato come «scissione dell’atomo» l’ipotesi di un esodo da Forza Italia, il fatto però che questa prospettiva sia stata segnalata, in prima pagina nei giorni scorsi, dal «Giornale» non è di poco conto e indica una certa preoccupazione. È come se il referendum, al pari di una slavina che via via s’ingrossa, si fosse messo di traverso al progetto di lifting affidato a Parisi nel tentativo di inseguire una fase di assestamento del partito per portarlo dall’attuale 4% ad un improbabile 20% di consensi.

Il progetto, nonostante il profilo professionale del manager che dovrebbe guidare l’alternativa moderata ad un centrodestra alla Salvini, non sembra convincere né all’interno (dove non si attenua lo scontro con i colonnelli) né all’esterno. Ma soprattutto pare facilitare l’offensiva del capo leghista, dell’Opa su Forza Italia come si chiama in gergo prendendo a prestito questo termine dalla Borsa.

I sondaggi, in questa fase, dicono che la Lega è il primo partito del centrodestra e Salvini – reduce da un’intervista al «Financial Times» – può dimenticare che la svolta lepenista alle ultime amministrative ha fatto flop e che il suo movimento ha perso anche a Milano. L’uomo con la felpa, mancato il primo turno, può ingaggiare il secondo tempo di una partita che, pure per lui, sta nel perimetro del centrodestra ma va anche oltre.

Salvini conta sulla sconfitta di Renzi per vedersela direttamente con Grillo sul suo stesso terreno: l’euroscetticismo, che oggi non si nega a nessuno, e tutto quel che ne deriva, assegnando a Berlusconi un ruolo marginale ormai fuori tempo e intestandosi una parte significativa dei voti del No. La Lega ha dalla sua qualche finestra in più, perché i sondaggi dicono che il No, oltre che al Sud, è in vantaggio anche nel Nordest, storica dimora di quello che era il forzaleghismo. Nelle terre del leghismo istituzionale, fra Zaia e Maroni, Salvini può quindi recuperare ciò che ha smarrito strada facendo: le parole d’ordine dell’autonomismo e quant’altro, fino ad oggi fuori agenda. La Lega potrà giocare la carta dell’opposizione al centralismo, dicendo che la riforma costituzionale toglie poteri alle Regioni. Ma è solo una parte della normativa, dato che nell’avere ora la sede istituzionale più alta, il Senato, le Regioni virtuose potranno chiedere pure maggiori competenze. In definitiva, il referendum appare come il terminale di un cortocircuito sia a destra sia a sinistra, di un quadrante politico trasversale sempre più difficile da controllare.

Il merito (per chi lo coltiva) sul testo da votare entra in questo frullato con la consapevolezza di rimanere confinato sullo sfondo: nel salotto buono dei costituzionalisti.

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