Renzi batte i pugni
sul tavolo europeo

Non può che lasciare sconcertati l’insolito scambio di accuse pubbliche che venerdì 15 gennaio ha opposto Jean Claude Juncker a Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan. Parole poco diplomatiche come «Renzi la smetta di offenderci», e «Juncker non creda di intimidirci».

Ora, c’è chi dice - è il caso degli anti-euro come Matteo Salvini - che abbiamo assistito al teatrino di politici della stessa parte, quella delle banche e dei poteri forti. Un’analisi che non va a fondo sui motivi di questo contrasto. Che, attenzione, non è nuovo: è almeno dall’inizio di dicembre che Renzi polemizza con il signore di Bruxelles e la sua lady protettrice, la Cancelliera tedesca. Tutti ricordano il battibecco tra lui e la Merkel all’ultimo Consiglio europeo sulle misure economiche, ma la lite di ieri sulla flessibilità («L’ho introdotta io nonostante la Germania» si è vantato Juncker, «non Renzi») e sugli aiuti alla Turchia per l’immigrazione, se possibile è andata più in là.

Non c’è dubbio che la titolarità di questa offensiva polemica vada intestata proprio a Renzi: è stato lui a cominciare. La domanda è: perché lo fa? La prima risposta è ovvia: reagisce per rivendicare un ruolo per l’Italia che ormai ha fatto «i compiti a casa» che le sono stati petulantemente chiesti per anni, e nello stesso tempo vuole far pesare il ruolo del suo partito, il più importante per voti e seggi nel Parlamento europeo e nel gruppo socialista.Del resto, i ripetuti attacchi all’Italia e alle sue richieste di flessibilità per la prossima legge di Stabilità scatenati dai rigoristi non pentiti come Schauble, Katainen, Dijsselbloem, giustificano i pugni battuti sul tavolo.

Ma parecchi in Italia sconsigliano a Renzi dall’esagerare, e gli hanno ricordato che la Commissione, se provocata con eccessiva ruvidezza, ha mille modi per farcela pagare. Tanto è vero che negli ultimi tempi gli sgarbi si sono moltiplicati: l’esclusione di Roma da diversi tavoli di discussione e la defenestrazione dell’unico rappresentante italiano nel gabinetto di Juncker. Altri si chiedono se non sia più utile cercare alleanze per pesare di più: obiezioni ragionevole, se non fosse che i Paesi del Sud Europa, basti pensare alla Spagna e al Portogallo, non ci sono né amici né alleati - e badano piuttosto ad obbedire a Berlino - e che con la Francia un vero «asse» non si è mai formato per la carenza di leadership di Francois Hollande. Insomma, noi siamo nel mezzo, con il Nord che ci scruta occhiutamente e non perde occasione per metterci dietro la lavagna, e con un Sud che non sa farsi valere. Una condizione che si attaglia alle nostre caratteristiche: siamo ancora forti, ma anche tanto indebitati, siamo il più grande dei piccoli, per una metà pienamente europeo ma per un’altra metà mezzo affondato nel Mediterraneo.

In questo contesto Renzi ha deciso che la cosa migliore da fare è alzare la voce perché l’Europa «cambi verso». Forse lo fa per mettere le mani avanti e impedire ai falchi di bocciare la legge di Stabilità in primavera; o forse a prevalere sono gli interessi di politica interna, cioè la prossima campagna elettorale amministrativa in cui gli anti-euro si aspettano di fare il pieno nelle città. O forse ancora, così arzigogolano i dietrologi, perché Renzi aderisce ad un «partito americano» ostile alla contraddittoria leadership tedesca (è vero che tante volte Renzi ha detto: la politica economica che vogliamo in Europa è quella che negli Usa ha superato la crisi creando milioni di posti di lavoro).

Sia come sia, dovrebbe farci piacere vedere un leader che non va a Bruxelles a scodinzolare o a prendere ordini. Purché alzare la voce serva davvero e non ci si ritorca contro. Insomma, speriamo che quello di Renzi sia un rischio calcolato.

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