Sardine, se torna
l’idea del limite

Sarebbe oggi una forzatura impostare una riflessione politica di prospettiva sul tema delle cosiddette sardine e del loro indubbio successo. Il fenomeno deve ancora manifestarsi in tutte le sue implicazioni e i promotori per primi devono risolvere con sè stessi, ma anche con le piazze che hanno riempito, il senso profondo del loro ruolo. Qualche elemento di riconoscibilità in termini di segnaletica politica è venuto, ma non è sufficiente uno slogan chiaro, anche se sottile, di lontananza dalla Lega e dalla destra, per definire compiutamente un profilo. Un dato di fatto tutt’altro che banale, però, è già possibile registrarlo, e cioè che il silenzio composto di queste piazze pur tanto affollate è una risposta molto eloquente alle urla e alle invettive che sembravano dominare inesorabilmente il dibattito pubblico: la crescita di toni e linguaggi sempre più esasperati, sempre più divisivi, sempre più offensivi. Prima delle sardine, a questo l’opinione pubblica sembrava rassegnata, staccandosi però ancor più da una politica tanto autoreferenziale.

C’è ora una parte d’Italia, sapremo con il tempo se è di centro o di sinistra ma certamente non estremista, che ha almeno contrastato una deriva. È un dato positivo in sé. Forse le sardine lo guasteranno con scelte che prima o poi dovranno emergere, ma la levità e l’ironia indicano che c’è una voglia positiva di dare l’esempio della non violenza, del recupero del rispetto reciproco. Quel poco di programma che è venuto fuori è più sul metodo (senso del dovere nello svolgere incarichi pubblici, distinzione tra ruoli di governo e partitici ecc.) che sul merito. Ma, nell’era della semplificazione populista, «difendere la complessità» è di per sé straordinario. Forse si comincia a pensare che ci sono dei limiti. Lascia basiti la foto del portavoce di Conte che siede a capotavola in un incontro internazionale a cui partecipano un Capo di Stato e due Capi di governo. Poco importa che sia un ex del Grande Fratello. L’Italia dovrebbe essere a capotavola in ben altre situazioni. Questa è solo arroganza, confusione di ruoli, sfregio istituzionale. E bisogna dirlo.

Il caso che ha segnato un confine fino a ieri invalicabile, è stato quello di Bibbiano. Ci sono regole che riguardano i limiti dello scontro politico. Le parti possono dividersi anche molto aspramente sulle scelte, perché in democrazia le opzioni sono tutte legittime. Gli attacchi e le accuse sono fisiologici. Quelli personali sono già al limite della correttezza. Quelli smisurati e senza minimo rispetto («non voglio avere a che fare con il partito che con l’elettrochoc toglieva i bambini alle famiglie per venderseli») non solo sono poco lungimiranti, perché poi con quel partito ci si fa un governo, ma delegittimano un intero sistema. Autorizzano chiunque a dire qualunque cosa. E farlo per ragioni di bassa cucina elettorale è una aggravante. Soprattutto, perdendo il senso del limite, il gioco è perennemente al rialzo. Le critiche non bastano, bisogna raccontare che c’è sempre un retroscena losco. La politica diventa sotterfugio permanente. Una legge di bilancio modesta e senza slancio non può diventare «tasse e manette»: è una forzatura. Un meccanismo complesso come il Mes non può diventare furto notturno legalizzato e il Premier che lo ha voluto col consenso in tempi diversi dei tre maggiori partiti, non può essere definito tout court un traditore. Gli applausi volutamente prolungati che accolgono da tempo il presidente Mattarella ogni volta che appare in pubblico sono sinceri, non ipocriti, anzi esternano uno stato d’animo. Sembrano dire «siamo con te», contro la canea di una politica che è sempre in campagna elettorale, cioè quel breve periodo in cui si fanno i comizi e quindi tutto è in qualche modo comprensibile.

Brevi periodi, però, perché altrimenti un Paese è stressato e una democrazia è logorata. Ora che ci sono delle piazze che, senza tanti discorsi, chiedono di equiparare nella condanna la violenza verbale a quella fisica, qualche merito alle sardine bisogna pur riconoscerlo.

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