Se il Nord sparisce
dai radar politici

Ora che ce ne sarebbe bisogno, la questione settentrionale è sparita dal radar. Semplicemente non se ne parla più.

Rimossa, come espulsa dal suo ambiente naturale. Qualcuno ha visto le mitiche partite Iva? A 21 anni dal fragoroso e applaudito esordio, il tandem nordista della Seconda Repubblica è stato derubricato da protagonista a spettatore con un sovrappiù di ingenerosità per i due guerrieri: Bossi e Berlusconi percorrono tristemente il viale del tramonto. Salvini, pioniere dell’ignoto, racconta un’altra Lega, Forza Italia è una tendopoli. Archiviati gli anni ruggenti insieme con la Seconda Repubblica, il Settentrione è stato restituito alla normalità. I numeri dell’economia continuano ad essere migliori che altrove, ma s’è persa la pretesa di un’isola felix: malapolitica e infiltrazioni della grande criminalità sull’asse lombardo-veneto, l’epicentro del sisma degli anni ’90 fra improponibile Padania e secessione leggera, hanno fatto il resto. Quella che doveva essere una grande storia, s’è rivelata spesso una cronaca effimera. A maggio si vota in alcune regioni e il faro sarà puntato sul Veneto: non c’è la Grande Causa (federalismo, territorio, rapporti con Roma), ma si convive nella piccola cucina fra la contesa Tosi- Zaia e l’approssimativa alleanza Lega-Forza Italia. Tutto qui, 21 anni dopo.

Fa così riflettere il giudizio severo, ancorché autorevole, dello storico dell’industria Giuseppe Berta che, nel suo ultimo saggio «La via del Nord», lascia al dibattito giudizi come questo: «La società settentrionale ha perso il proprio carattere esemplare, cioè l’essere il motore dello sviluppo del Paese, capace non soltanto di additare un percorso di progresso, ma di convogliare lungo il cammino della crescita parti e componenti del resto d’Italia». Mentre Salvini inaugura il nuovo corso nazionalista inseguendo l’uscita dall’euro (e serve che lo spieghi ad una terra che ha la pancia piena grazie all’export), la grande industria arretra, la Fiat è sempre più global, i cinesi si son presi la Pirelli e l’emiro del Qatar i grattacieli di Milano: in un’Italia senza un piano industriale, nel solo primo semestre 2014 i capitali esteri hanno compiuto acquisizioni per 5,7 miliardi.

La questione settentrionale è stata travolta dalla crisi e s’è ridimensionato il principio del primato del Nord, di una diversità positiva, su cui si reggeva la cultura del forzaleghismo: l’ex triangolo industriale e in particolare il Nordest, che è stato il bacino del consenso della Seconda Repubblica, patiscono gli stessi mali che si riscontrano in altre parti d’Italia. La pancia del Settentrione non manda adeguati segnali di modernizzazione al resto del Paese, là dove il miracolo economico degli anni ’50 fu reso possibile dalla potenza economica del Nord al servizio di una politica nazionale. La cultura industriale del Nord non ha più la forza e i numeri di pensarsi come un progetto. In questi anni il vitalismo dei nuovi ceti medi, i metalmezzadri divenuti padroncini, ha incontrato i propri limiti in un modello di sviluppo individualista e anarcoide. Una corsa stressante e con il turbo («Più Cabernet, meno internet», si legge sui muri del Veneto gaudente) che al capolinea ha incrociato la recessione. Nel frattempo la nuova politica ha replicato i vizi della vecchia, senza averne la professionalità, e il federalismo s’è rivelato un moltiplicatore dei centri di spesa.

È cambiata in profondità la geografia economica e con l’irrompere di nuove questioni sociali legate all’universo del precariato la base sociale del centrodestra è entrata in crisi d’identità. Il sindacato del territorio è un disco rotto quando le decisioni sono prese dalla troika europea e quando bisogna fare i conti con i mercati. Come ha scritto Ilvo Diamanti su «Repubblica», «il Nord si è perso nelle nebbie della globalizzazione». Ma è pur vero che il lascito di lotta e di governo del forzaleghismo non è riuscito a cambiare in meglio i termini della questione e andrebbe aggiornato quel che sulla Lombardia scriveva Guido Piovene nel suo celebre «Viaggio in Italia» del ’57: «Questa regione ricca, borghese e sensata vive nella paura d’essere portata a fondo da debolezze alle quali si sente estranea». Era vero ieri, meno negli anni Duemila: la cura della Seconda Repubblica fu vera gloria?

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