Serve un patto
per la produzione

I dati recenti sulla produzione industriale italiana di giugno, inferiori a quelli dello scorso anno, e il dato relativo all’intero primo semestre, praticamente identico a quello di un anno fa, pongono l’interrogativo sull’effettiva presenza di una ripresa nel nostro Paese. A maggior ragione se si pensa che a un risultato piatto si perviene dopo che dal 2007 a oggi si è perso quasi il 25% della produzione.

E poi che nel primo semestre di quest’anno si è registrata una forte impennata nella produzione del comparto auto, indotto compreso. È pur vero che altri segnali ci rendono più speranzosi: la ripresa dei mutui sull’acquisto di case, lo stop alla crescita delle sofferenze bancarie, i buoni primi semestri delle nostre principali banche, i buoni dati sul fabbisogno dello Stato rispetto allo stesso periodo del 2014. Infine, le previsioni aggiornate sulla crescita del Pil prevista per quest’anno pari allo 0,7% dopo anni di recessione.

D’altro canto hanno buon gioco quelli che sostengono che è un po’ poco se si pensa al fatto che i tassi di interesse, e quindi anche quelli sui mutui e sui titoli di Stato, sono tenuti artificialmente bassi dalla Banca Centrale europea, che i prezzi delle materie prime sono crollati rispetto allo scorso anno, che l’euro si è indebolito sulle principali valute, dollaro e sterlina in primis. Ottimisti e pessimisti hanno questa volta entrambi una ragione. I primi pensano che stiamo uscendo dalla recessione, i secondi che malgrado i venti favorevoli rasentiamo il fondo. Il risultato finale è nei dati sull’occupazione, i quali stentano a decollare malgrado gli interventi normativi messi in atto; essi vanno peraltro confermati e finanziati per gli anni a venire. In altri termini, non sono il risultato della ripresa ma un provvedimento che ha comunque un costo per le casse dello Stato.

La mia impressione è che dobbiamo riflettere su due aspetti. Il primo di carattere internazionale, il secondo più nostrano. A livello mondiale, il calo dei prezzi delle materie prime e la frenata cinese non dipingono uno scenario molto positivo per i prossimi anni, come ben chiarito dal prof. Tancredi Bianchi proprio sulle colonne di questo giornale. Il mondo continuerà a crescere ma non a sufficienza per trascinare i Paesi più fiacchi (come l’Italia visto il suo debito pubblico). A livello italiano, occorre ribadire che senza il ripristino di un’adeguata capacità industriale difficilmente potremo generare il valore aggiunto che serve per la ripresa del Paese. Perdere un quarto della produzione in meno di un decennio è un evento di così rilevante portata da non poter essere sottaciuto.

È possibile riprenderla? E se sì come? Diciamo subito che difficilmente la riprenderemo nei settori dove l’abbiamo persa. E diciamo anche che il riprendersela non significa immaginare il ritorno di assetti proprietari nazionali dove questi hanno ormai preso un abbrivio internazionale, come è normale in un mondo dalle frontiere labili. Diciamo anche che non faremo passi nella giusta direzione se non cambieranno le nostre abitudini, il nostro modo di lavorare, le nostre pretese. I settori che crescono sono quelli che ad esempio guadagnano grazie all’invecchiamento della popolazione: biomedicale, farmaceutico, edilizia associata al ciclo di vita. Oppure quelli che ci proiettano verso nuovi salti tecnologici: meccatronica, chimica dell’ambiente, energia, scienze della vita.

Chiediamoci per quale motivo alcuni fondi sovrani di Paesi stranieri acquistano società estere in Europa, Stati Uniti e anche in Italia che operano in questi settori. Serve un Patto per la Produzione: scienza e impresa insieme per riprendersi la nuova produzione che poi vuol dire lavoro e quindi a questo traguardo tutti, scienziati, imprenditori e lavoratori dovrebbero essere interessati. E se si devono mettere alcune risorse per questo obiettivo si mettano, sono ben investite. Non lo facciamo per l’oggi ma per il domani. Non per noi, forse, ma per i nostri figli.

Qual è il prezzo che rischiamo di pagare senza uno scatto in questa direzione? Semplice, i servizi e il welfare di cui ancora oggi, malgrado tutto, godiamo non saranno più sostenibili. Davvero pensiamo di poter garantire un eccellente e universale servizio sanitario se tutti gli apparecchi utilizzati in un ospedale vengono sviluppati e prodotti altrove, tanto per fare un esempio? Muoviamoci prima che le tensioni sociali diventino ben più difficili da gestire di quelle economiche; a queste ultime, forse, possiamo ancora porre rimedio.

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