Sicurezza e carcere
La verità conviene

Il tema della giustizia è altamente infiammabile nel dibattito pubblico, soprattutto quando riguarda il potere. Quel dibattito ha tenuto banco anche in questi giorni, oscurando sui media nazionali un’iniziativa che in Italia non ha aveva precedenti. Per la prima volta infatti si sono tenuti (lunedì e martedì scorsi a Roma) gli Stati generali sull’esecuzione penale, al termine di un percorso durato un anno e che ha messo a confronto esperti del settore (da giuristi a politici, da magistrati a dirigenti penitenziari a politici, da educatori a medici) con l’obiettivo di rendere più efficace appunto l’esecuzione della pena.

Un tema decisivo riguardando la sicurezza sociale. Solo «Avvenire» e «Il Sole 24 Ore» hanno dato risalto alla cronaca della due giorni. Il primo per un’evidente sensibilità cristiana sul tema, il giornale di Confindustria invece perché laicamente coglie non da oggi la rilevanza delle questioni affrontate: una giustizia efficiente ha infatti ricadute positive anche sulla crescita civile ed economica del Paese, come dicono i dati.

Spetterà ora al Parlamento e al governo dare corpo alle conclusioni alle quali sono giunti gli Stati generali: declinare la certezza della pena diversamente abbattendo gli steccati fra carcere e società, incrementare pene e misure alternative alla detenzione, più giustizia riparativa per curare la ferita generata dal colpevole sulle vittime e sulla società, riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, superata dai cambiamenti sociali e della criminalità. Il punto di partenza è la verità riguardo a un sistema che illude i cittadini: lasciare il reo al suo destino in carcere non genera più sicurezza per le nostre comunità, anzi. Non è un giudizio buonista, ma un’evidenza supportata dai numeri. La recidiva, cioè il ritorno a commettere reati quando si torna in libertà, è del 56% (fra le più alte in Europa, 67% tra gli italiani e 37% tra gli stranieri) per chi ha scontato tutta la pena dietro le sbarre, dello 0,79% per chi ha beneficiato di una misura alternativa.

Umanizzare l’esecuzione della pena quindi conviene a noi oltre che ai condannati. È un dato di fatto ma non ancora senso comune, oltre che un principio sancito dalla Costituzione: «La responsabilità penale - recita l’articolo 27 - è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Inoltre in barba al dettato costituzionale (si è colpevoli solo dopo la sentenza definitiva), il 34,6% dei detenuti oggi nei penitenziari italiani è in attesa di giudizio (la media europea si attesta al 20,4%). Ma quale rieducazione è possibile in carceri criminogeni e degradati a discariche sociali, con il 40% degli ospiti affetti da malattie mentali e il 22,8% dipendenti dalla droga, persone che andrebbero curate altrove?

Va dato merito al ministro della Giustizia Andrea Orlando di avere promosso gli Stati generali sull’esecuzione penale e di avere raggiunto risultati importanti nella sua azione. A cominciare dal contrasto al sovraffollamento: i detenuti erano 53.495 a marzo, rispetto ai 67.971 del dicembre 2010, a fronte di una capienza complessiva di 47.709 posti. Nessuno vive più in spazi sotto i 3 metri quadrati (standard minimo sancito dalle convenzioni europee), ma quasi 4 mila carcerati non hanno ancora un posto letto. Progressi anche nel ricorso alle misure alternative: ne beneficiano 41.399 persone, erano quasi la metà nel dicembre 2010.

Cambiare aria nelle carceri è urgente anche per prevenire la pericolosa radicalizzazione islamica, che oggi coinvolge 360 detenuti, altri 500 nelle carceri minorili. Le norme in vigore erano state scritte per una popolazione penitenziaria omogenea dal punto di vista culturale, linguistico e religioso, mentre oggi il 30% dei detenuti è straniero. Il ministro Orlando ha promesso cambiamenti anche su questo fronte, comprese nuove risorse economiche.

Oggi lo Stato (cioè noi) spende 140 euro al giorno per detenuto, cioè quasi 3 miliardi all’anno. Soldi mal distribuiti, visti gli esiti. In generale è sul fronte della cultura pubblica che il ministro vorrebbe intervenire come premessa al cambiamento. La cella non deve essere l’unica risposta alle legittime paure collettive, se non per i reati più gravi. Ma anche nella maggioranza di governo, Orlando non trova il sostegno necessario. Basti pensare alla mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, che nella formulazione attuale non ha certo disincentivato i flussi migratori ma ha invece intasato le Procure di procedimenti inapplicabili. La misura però è rimasta in vigore come palliativo per curare la (in) sicurezza percepita, che non coincide con quella reale. Non a caso per bucare il muro dell’ipocrisia mediatica sul tema dell’efficacia dell’esecuzione della pena, il ministro si è affidato a un video messaggio di Checco Zalone. La simpatia per alleggerire la paura e la diffidenza. Ma senza dimenticare che la questione sicurezza è seria.

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