Un fulmine a ciel sereno
Ma la partita è più grande

La vicenda ha tutti i contorni del giallo e tale rimarrà anche dopo che oggi l’interessato avrà spiegato i motivi della propria scelta: sarà uno dei pezzi più sorprendenti e misteriosi dell’Election day del 4 marzo. Dunque, Roberto Maroni, al di là di ogni evidenza mostrata fino a ieri, non intenderebbe ricandidarsi a presidente della Lombardia: il colpo di scena verrà formalizzato a mezzogiorno dallo stesso governatore. «Motivi personali», si leggeva nelle poche righe di un comunicato, ieri sera, in cui ad Arcore veniva ufficializzata l’alleanza di centrodestra, spiegando che comunque anche in Lombardia si arriverà a candidati «comuni e condivisi».

In pochi credono ai «motivi personali» per una svolta che, almeno a prima vista, non ha una giustificazione politica. Se c’era un candidato forte e «naturale» per un centrodestra che si ritiene in gran spolvero (secondo i sondaggi), questo era Bobo, fra i principali architetti della Lega di governo. La Lombardia, per il suo valore, non è una Regione fra le tante e Maroni non è un nome qualsiasi: da qui l’impatto dirompente con le caselle che andranno riordinate e un certo disorientamento nell’elettorato lumbard. Nel mazzo c’è, poi, tutta la partita bergamasca che riguarda il candidato del centrosinistra, Giorgio Gori: il sindaco avrà modo di valutare eventuali benefici da una prospettiva inedita. Inattesa? Fino ad un certo punto. Per quanto il non detto sia solo ipotetico e attenda conferme, Maroni si sfila dalla Lombardia, ma resta in campo. Forse a livello nazionale, politico o istituzionale, comunque non esce di scena: si ricolloca in un altrove? Al suo posto, in corsa al Pirellone, potrebbe esserci l’ex ministro azzurro Mariastella Gelmini o l’ex sindaco leghista di Varese, già presidente del Consiglio regionale e dell’Anci Lombardia Attilio Fontana.

Sul piano mediatico è un fulmine a ciel sereno. Alla Bèrghem Frècc, del 29 dicembre ad Albino, tutto era filato liscio: Maroni con il governatore ligure Toti, gran sorrisi e perfetta intesa fra le due Regioni che con il Veneto costituiscono il triangolo d’oro del centrodestra. Nessuna novità pure il 3 gennaio al Consiglio federale della Lega. In realtà il tam-tam circolava da alcune settimane. Il profilo di Maroni, uomo navigato e imprevedibile, lo colloca comunque in una nicchia a sé e può renderlo spendibile in un contesto più ampio della Lega, un esito magari sortito dal cilindro di Berlusconi. Leghista storico, legato umanamente e non solo a Bossi ma anche con qualche uscita solitaria, Maroni ha guidato il repulisti dopo l’inchiesta a carico del vecchio leader, passando poi la mano a Salvini. Più volte ministro, personaggio un po’ trasversale e un po’ neutro, s’è inventato il referendum sull’autonomia della Lombardia in tandem con il Veneto, per quanto il botto l’abbia fatto Zaia.

In un paio d’occasioni s’è distanziato da Salvini, la Lega lepenista non è la sua, ma ha fatto di necessità virtù. Non organico e non allineato al salvinismo, comunque sempre parte del vertice e pendant istituzionale di una Lega in libera uscita dalla Padania. Ha una sua squadra, un certo consenso oltre il perimetro leghista, anche perché in fondo ha cercato di non scontentare nessuno: rappresentativo, comunque, di un pezzo significativo di società lombarda. Il contesto politico, però, è quello del duro conflitto tra Berlusconi e Salvini, che continua nonostante le tregue: in ballo ci sono i collegi uninominali al Nord e il leghista è un osso duro. A questo punto si rimescolano le carte con il jolly. Il pontiere Maroni, la carta dell’ultima ora, ha una certa duttilità, si relaziona, contraccambiato, con Berlusconi. Forse per spiegare il passo indietro di Bobo bisogna partire da qui per capire come, dal suo punto di vista, possa rappresentare, chissà, un passo verso Roma. Sempre che, se questa è l’ipotesi, non si riveli un azzardo.

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