Una domanda interroga
la coscienza europea

È un peccato che la recente e contestata decisione del Parlamento di Varsavia ­– che proibisce per legge ogni menzione di responsabilità polacche nell’Olocausto, punibile fino a tre anni di carcere – non sia parte del dibattito pubblico in Italia. Ognuno evidentemente ha i propri scheletri nell’armadio ma, al netto di tutto il resto, siamo dinanzi ad una vicenda indicativa delle ambiguità scivolose che può produrre la combinazione fra populismo e nazionalismo: aspetto che non può lasciare indifferenti.

La questione, in apparenza, è semplice. Definizioni come «campi di concentramento polacchi» sono certo scorrette, perché lager come quello di Auschwitz era un campo nazista in territorio polacco e del resto i polacchi costituiscono il blocco più ampio dei Giusti tra le Nazioni, cioè coloro che hanno salvato ebrei dalla Shoah. Un merito storico. Ma l’autoassoluzione collettiva cancella per decreto il collaborazionismo che pure c’era stato durante l’occupazione tedesca. Antisemitismo, inoltre, che si riproporrà nel 1946 e negli anni ’60 sotto il regime comunista.

Imporre il bavaglio alla storia è una faccenda molto pericolosa: si sa da che parte si comincia, ma non dove e come si finisce, specie in una fase in cui, nel cuore dell’Europa, stanno tornando indulgenze verso l’indicibile. Amputare il passato che non passa depurandolo delle pagine oscure rischia di diventare un’operazione di regime, superando un legittimo disagio collettivo (l’identificazione della Polonia con il nazismo) attraverso strumenti impropri. Del resto, come ha osservato lo storico Giovanni Sabbatucci, la capacità di fare i conti con la propria storia, di accettare il proprio passato e di discuterne in libertà «rappresenta un discrimine significativo per misurare la qualità di una democrazia». La Francia del gollista Chirac aveva ammesso la collaborazione di francesi all’eliminazione degli ebrei e il presidente Mattarella, che ha nominato senatrice a vita Liliana Segre, ha avuto parole durissime contro le leggi razziali del ’38 («macchia indelebile della nostra storia»).

L’approccio selettivo della destra radicale polacca è il riflesso automatico del nazionalismo, le cui fortune senza confini stanno nel proporsi come vittima di un complotto esterno: la Germania di oggi, l’Europa, gli immigrati, gli islamici. Va da sé che in questa logica della politica come conflitto permanente ci stia pure l’oscuramento di Walesa, storico leader di Solidarnosc, progressivamente espulso dalla narrazione patriottica. Ma non è una malattia consumata in solitudine o solo in coppia con l’Ungheria di Orban, il teorizzatore della «democrazia illiberale», deriva che ha portato i due Paesi sotto sorveglianza dell’Ue per le lesioni inferte ai fondamentali dello Stato di diritto. Se fino a poco tempo fa modelli come quelli di Ungheria e Polonia erano ritenute singolari deviazioni politicamente scorrette confinate nel solo consenso nazionale, oggi sono attorniati nella Mitteleuropa, e non solo, da leader politici e capi di governo che ne condividono l’idea di società chiusa e la diagnosi dei mali europei. Solo qualche mese fa si parlava dei carri armati austriaci al Brennero per bloccare i profughi dall’Italia, mentre nel Bundestag siedono 90 parlamentari dell’estrema destra. Qualche grossolana eco sovranista dimora pure in un’Italia senza memoria. Nella stagione della democrazia senza popolo e di spettatori indifferenti della cosa pubblica, s’imporrà prima o poi una domanda che interroga la coscienza europea e che riassume i passi indietro della democrazia rappresentativa: se per caso non sia il tempo ingannevole degli apprendisti stregoni.

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