Violenza politica
verità avvelenate

Quando c’è violenza politica si sa dove si inizia, ma non dove e come si finisce. È la prima volta in tempi recenti che una campagna elettorale è segnata da simili episodi, protagonisti neofascisti ed estremisti di sinistra. L’asticella s’è alzata dopo le tragedie di Macerata. Una brutta cornice che preoccupa, ma che non sorprende in un Paese che da sempre tiene in pancia un eterno sovversivismo. Una violenza in gestazione da tempo e incubata da un tono generale uscito dalle righe, da parole usate come proiettili.

Cattivi maestri e imbonitori, adusi a seminare disordine per raccogliere ordine, hanno ritorni ciclici. In tempi in cui l’inganno è la regola, tutto sembra diventato lecito e normale. Violenza e settarismo si autoalimentano e dietro l’angolo c’è sempre il pericolo di finire risucchiati in un crescendo fuori controllo. È al lavoro la strategia dell’avvelenamento del pozzo, che delegittima qualunque cosa un avversario dica. Per questo si discute se ciò che vediamo possa scivolare verso un esito prossimo a quello anni ’70: la notte della Repubblica, gli anni di piombo con l’attacco al cuore dello Stato, del terrorismo rosso e dello stragismo nero, l’unico Paese occidentale ad essere colpito da una patologia così profonda e prolungata. Le analogie sono improprie, comunque qualcosa abbiamo imparato. Nel bene e nel male siamo stati un laboratorio ideologico. Nel periodo successivo alla strage di piazza Fontana del ’69 e nel pieno delle violenze di piazza, il prefetto di Milano, Mazza, elaborò la teoria degli «opposti estremismi» contrastata dalle sinistre. I fatti, che sono ostinati, hanno dato ragione al prefetto. Rossana Rossanda, intelligenza del Manifesto, dinanzi al terrorismo delle Br parlava di «album di famiglia». Ne siamo usciti con la politica e con la legge. L’Italia ce l’ha fatta con la risposta corale dei partiti (a cominciare dal Pci) e dei sindacati: un percorso talora non lineare e contraddittorio, tuttavia riuscito. Quando s’è tolta l’acqua dove stanno i pesci, l’area contigua di compiacenza e complicità: nelle fabbriche, nei salotti, nelle università.

L’Italia di oggi non è evidentemente questa, ma in teoria quella lezione potrebbe essere rielaborata su un quadro rovesciato, perché oggi le maggiori preoccupazioni vengono dall’estrema destra in una tendenza ostile alla liberaldemocrazia: se ieri i comunisti sono stati parte decisiva della tenuta repubblicana, oggi a questa responsabilità aggiuntiva sono chiamate le destre democratiche. Quando la destra era consapevole, il gollista Chirac fu determinato contro l’Austria di Haider e non stese il tappeto a Bush con l’elmetto. Oggi non è proprio così, perché la credibilità di questa metà campo in materia non sempre è inattaccabile. In Europa sono già diversi i governi di coalizione con la destra radicale e nell’Est delle «democrazie illiberali» si retrocede verso un’esplicita tolleranza nei confronti di formazioni neonaziste e antisemite. Il Partito popolare europeo, l’ex salotto buono della politica che ha con sé qualche ingombrante alleato, potrebbe fare di più e di meglio: almeno battere un colpo. Si dirà che così hanno deciso gli elettori. Ma il nodo politico resta irrisolto, perché l’assenza di paletti produce un’ambigua contaminazione a scapito della trasparenza: se l’obiettivo è portare nelle istituzioni ciò che è radicale per mitigarlo, non è chiaro l’equilibrio fra l’azione democratica e quella illiberale. Chi condiziona chi? Non lo è, perché il populismo antiliberale che spazza l’Europa è la talpa che utilizza le istituzioni parlamentari quale anticamera dell’antiparlamentarismo e per ridurre il perimetro dello Stato di diritto. Giocolieri che hanno costruito le proprie fortune su verità avvelenate. Niente di nuovo, pure per la storia italiana.

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