Honolulu baby (pensioni)

di Giorgio Gandola

Un decreto legislativo a forma di pernacchia. Fu emanato 40 anni fa durante le vacanze di Natale, portava il numero 1092 e la firma in calce di Mariano Rumor che di fronte alla storia rimane l’autore di questo sgorbio: il decreto delle pensioni baby.

Un decreto legislativo a forma di pernacchia. Fu emanato 40 anni fa durante le vacanze di Natale, portava il numero 1092 e la firma in calce di Mariano Rumor che di fronte alla storia rimane l’autore di questo sgorbio: il decreto delle pensioni baby.

Oggi, fra esodati e pensionati che sbarcano il lunario con meno di mille euro, ricordare quella decisione significa rimettere a posto la graduatoria delle responsabilità, storicizzare una crisi che arriva da lontano, risalire l’albero genealogico degli errori e delle omissioni che oggi i cittadini sono costretti a pagare duramente. Quel decreto consentiva alle donne sposate con figli di andare in pensione dopo 15 anni, sei mesi e un giorno di lavoro; agli impiegati statali di ricevere l’assegno dopo 20 anni; ai dipendenti degli enti locali dopo 25.

Quell’insostenibile follia fu abrogata 19 anni dopo, ma continua a danneggiare i conti dello Stato. Oggi mezzo milione di italiani ne usufruisce legittimamente, 425 mila dei quali ex dipendenti pubblici. Il peso economico è di nove miliardi l’anno, fino al 2012 la legge Rumor è costata agli italiani 150 miliardi. Diciassettemila persone andarono in pensione con 35 anni di età e – considerate statisticamente le aspettative di vita – percepiranno la pensione per mezzo secolo. Vale a dire incassando mediamente il triplo rispetto a quanto avevano versato. Un’ingiustizia pura e semplice, lo dicono i numeri con la loro forza, con la loro laconica lucidità. Il decreto sulle baby pensioni ancora oggi ci dimostra quanto fosse già allora allegra e superficiale la gestione della cosa pubblica. E quanto fosse sbagliata la frase di Andreotti: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia».

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