Il bancomat ristretto

di Maurizio Ferrari

In teoria è la cosa più semplice di questa terra: un comune mortale nell’anno 2013 dovrebbe poter entrare in un qualsiasi negozio e poter pagare il suo acquisto con bancomat e carta di credito, come in qualsiasi altro Paese del pianeta.

In teoria è la cosa più semplice di questa terra: un comune mortale nell’anno 2013 dovrebbe poter entrare in un qualsiasi negozio e poter pagare il suo acquisto con bancomat e carta di credito, come in qualsiasi altro Paese del pianeta.

Ma l’Italia non è un Paese qualsiasi: lo sappiamo per tante ragioni, alcune straordinarie, altre mortificanti. Così accade che bisogna arrivare a imporre (il decreto è il 179 del 18 ottobre) per legge ai negozi di dotarsi del famoso pos, che ad altre latitudini è consuetudine paragonabile all’apertura di un ombrello quando piove. Tutta colpa della riottosità dei negozianti? Non proprio.

Certo, è pur vero che talune categorie stanno facendo melina da anni e che nelle abitudini italiche quel fruscìo della banconota tra le mani è qualcosa di ancestrale, ricollegabile al concetto di «roba» magistralmente descritto dal Verga un secolo e mezzo fa. Ma poi si scopre che il sistema della moneta elettronica, in Italia, fa acqua da tutte le parti, che le clonazioni sono all’ordine del giorno e le commissioni sono talmente spropositate che, soprattutto per i piccoli acquisti, rischiano di apparire quasi controproducenti. Così se da noi uno vuol pagarsi un caffè con la carta di credito o un giornale con il bancomat, la commissione fissa di 20 centesimi si «mangia» completamente il margine (del 19%) che spetterebbe a baristi e edicolanti. Non parliamo poi dell’ingresso del pos negli studi professionali: da gennaio anche in uno studio medico, da un avvocato o un architetto, si avrà il diritto di «strisciare» la credit card. Auguri. Detto ciò, è intollerabile l’equazione «pagamento in contanti, uguale evasore»: eppure temiamo che la caccia alle streghe elettronica sia solo all’inizio.

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