Union Jack

di Giorgio Gandola

Scriveva Indro Montanelli in un reportage passato alla storia dal porto di Namsos nella Norvegia occupata dai tedeschi (1940): «La tenaglia della Wermacht si stringeva giorno dopo giorno...».

Scriveva Indro Montanelli in un reportage passato alla storia dal porto di Namsos nella Norvegia occupata dai tedeschi (1940): «La tenaglia della Wermacht si stringeva giorno dopo giorno da sud e da nord attorno agli anglo-francesi ai quali i bombardieri non davano tregua. Nella stiva di quell’incrociatore, che le deflagrazioni delle bombe spazzavano come un fuscello sulle onde, assaporai per ore e ore la sensazione di morire in trappola come un topo».

Sulla nave che stava reimbarcando la fallimentare spedizione, Montanelli aveva descritto i francesi che litigavano, i belgi che si nascondevano e i polacchi che pregavano. Poi dalle viscere sentì provenire un canto. «A un certo punto si levò sommesso il coro britannico: “It’s a long way to Tipperary”. E allora capii».

Avrebbe spiegato più volte che quel reggimento di scozzesi che cantavano un brano inglese sulla nostalgìa della terra d’Irlanda lo folgorò. Lì, sotto gli attacchi degli Stukas, aveva compreso due cose: che quella era una grande nazione e che avrebbe vinto la guerra.

Ieri quella nazione plurale nelle tradizioni e composta da uomini gelosi delle proprie radici ha deciso di rimanere una. E lo ha fatto perché è arrivata sin qui combattendo unita le battaglie più importanti degli ultimi cento anni. Sono cose che cementano, che uniscono sangue a sangue. Un giorno la regina disse a Tony Blair: «Non scherzare con la devolution». E adesso, dopo lo spavento, devolution sarà. Ma per stare meglio insieme. Chissà se noi, vittime di un indipendentismo da operetta, possiamo capirlo.

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