Nelle corsie dell’ospedale
il significato del vivere

«A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale», scrive l’ultimo capitolo del «La coscienza di Zeno». A distanza, il giovane specializzando in medicina Baptiste Beaulieu sembra rispondere che «La vita non è grave».

«A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale», scrive l’ultimo capitolo del «La coscienza di Zeno». A distanza, il giovane specializzando in medicina Baptiste Beaulieu sembra rispondere che «La vita non è grave». Un libro venuto, più che dalla strada, dalle corsie di un ospedale. Dove ritrovare il valore della vita, che lì quasi sempre comincia e talvolta finisce, persino nelle situazioni più invivibili.

Un medico affabulatore, che si intrattiene a raccontare storie per tenere lontana la morte, per prolungare la vita di un paziente con le storie delle vite degli altri. «Di quelli che giacciono a letto e di quelli che li rimettono in piedi». Ci si immerge, da subito, volutamente, ostentatamente, nel massimo del dolore, del brutto, dell’ignobile, del repellente. Per trarne comunque una spinta di vita. Si comincia, guarda caso, con un tentativo di suicidio, una signora che ha preso un bel cocktail di pastiglie. Contro la sua volontà, se la caverà: «Mi è andata male». Per ribaltare il punto di vista (le è andata bene, è ancora viva), il medico scodella la sua storia speciale, per situazioni gravi: un paziente disabile, costretto su una sedia a rotelle, braccio incollato al torace, gambe piegate in posizione grottesca, corpo disseminato di ustioni gravi, ridotto a «una colata di lava». E tuttavia quello che resta delle labbra sorride «di un sorriso immenso». Quattro anni prima, quell’uomo aveva riempito di benzina l’abitacolo della macchina ed era andato volontariamente a schiantarsi contro un muro. Un libro che corre sempre sul filo dell’eccesso di buonismo, della favoletta consolatoria, del facile ottimismo, ma si tiene in equilibrio con l’ironia, la consapevolezza del limite, un certo sano realismo fisiologico. Il voluto paradosso è: mettere, letteralmente, le mani nelle feci, e scoprire che in quell’operazione può stare la parte più bella, buona e nobile della vita, quella che dà senso a tutto il resto: «In tutti i nostri studi non c’è niente di più bello che svuotare il colon di una vecchia di novantadue anni».

L’uomo si sente grande solo perché sa scolpire il David o comporre la Nona; in realtà è «un tubo che si riempie dall’alto e si svuota dal basso». Eppure deve esserci «qualcosa di grande, bello e buono tra quei tubi che si aiutano a vicenda in un piccolo ospedale, perso in un punto di un minuscolo pianeta abbandonato nell’immensità del vuoto».

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