Conoscere l’islam
nei nostri territori

Il passaggio a Bergamo, nel 2012, di Musa Cerantonio, 29 anni, italo-australiano, imam fondamentalista e reclutatore di combattenti occidentali per la jihad, conferma che non esistono territori al riparo dalla propaganda a favore del terrorismo islamista.

Del resto la prateria di internet, che non conosce confini, è uno dei luoghi privilegiati del proselitismo jihadista. Anche un altro famigerato imam, Bilal Bosnic, con un profilo analogo a quello di Cerantonio e arrestato l’anno scorso, frequentava la nostra provincia, mentre tre dei nove stranieri espulsi dall’Italia nei giorni scorsi perché ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale - come segnalava ieri la collega Carmen Tancredi nell’articolo scoop sul passaggio in città dell’italo-australiano - avevano frequenti contatti con islamici residenti nella Bergamasca.

Che conclusioni si devono trarre da queste notizie? Oltre all’evidenza che anche la nostra terra è toccata da predicatori dell’odio, c’è il conforto per il buon funzionamento del sistema di vigilanza e controllo da parte delle forze dell’ordine e della magistratura. Altri giudizi nel merito di queste notizie sarebbero francamente affrettati. Semmai è opportuno allargare lo sguardo all’islam di casa nostra, che non fa titolo ma che non è ovviamente indifferente a quello che sta accadendo nel mondo.

I numeri sulla presenza dei musulmani nella Bergamasca non sono precisissimi: secondo le stime dell’Osservatorio regionale sull’immigrazione, la comunità rappresenta oltre il 50% dei 130 mila stranieri residenti. La percentuale però non tiene conto dei 10 mila boliviani (cristiani) irregolari: con loro, la presenza islamica scende al 40-45%, approssimativamente circa 60 mila persone. È una presenza non fotografabile con un unico scatto, perché molto variegata - quando non divisa: non corrono ad esempio buoni rapporti fra le comunità marocchina e senegalese musulmana - e perché poco conosciamo di quell’universo.

Ufficialmente esistono tra città e provincia una dozzina di luoghi di culto (che impropriamente vengono chiamati moschee: in Italia ci sono solo quattro costruzioni che rispondono a questo nome, con l’area per la preghiera e il minareto: a Roma, Colle Val d’Elsa, Ravenna e Segrate) ma cresce il ricorso a locali utilizzati impropriamente a scopo religioso. A Bergamo è aperto il dibattito sulla costruzione di una nuova «moschea» perché il centro di via Cenisio è ormai inadatto ad ospitare i fedeli.

Il clima politico dopo l’eccidio di Parigi non favorisce un confronto pragmatico perché c’è chi è pronto a cavalcare le nuove paure. Ma si dovrebbe partire dal presupposto che la libertà di culto è un diritto costituzionale: la questione è come metterlo in pratica. Inoltre il proliferare di centri di culto illegali è in antitesi con la possibilità di controllo da esercitare e di doveri da reclamare perché l’ideologia jihadista alla ricerca di nuovi adepti non cerchi di pescare anche nei nostri territori.

Altro tema è quello dei referenti dell’islam di casa nostra. Va evitato il rischio di accreditare figure che non sono rappresentative ma che hanno la pretesa di esserlo. Ritorniamo allora al punto della conoscenza. Vanno aperti nuovi canali di comunicazione, favorendo l’incontro anche attraverso occasioni pubbliche. Come fa il mondo del volontariato, ad esempio con l’iniziativa delle Acli «Molto fedi sotto lo stesso cielo», che rappresenta un’occasione per far emergere le comunità e costruire relazioni di convivenza con la grande maggioranza dei musulmani che rigetta l’ideologia jihadista. È un antidoto contro la paura (nostra e loro) e i cattivi maestri.

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