Un Paese in vendita
ci toglie sicurezza

Certo l’obiettivo è garantire la crescita dell’impresa e assicurare i posti di lavoro ma la cessione di Italcementi alla tedesca Heidelberg Cement lascia l’amaro in bocca. Sarà una questione di cuore ma Italcementi è un pezzo storico dello sviluppo industriale, centocinquant’anni che segnano l’Italia e la portano alla modernità produttiva. È un marchio storico, l’ultimo dopo il passaggio di Pirelli ai cinesi , che passa in mani straniere.

Sappiamo tutti che l’italianità in sé non è decisiva ai fini di una buona gestione aziendale. Un gruppo come quello che sta nascendo costituisce una realtà imprenditoriale in grado di competere nel mondo e quindi di rafforzare la presenza europea sui mercati globali, resta il fatto però che l’Italia perde un big player, quelli che decidono le proprie sorti e non le subiscono. Adesso anche per il cemento e i settori accessori l’Italia mantiene i siti produttivi, ma le decisioni le prenderanno altri, ed altrove. Bernd Scheifele , il ceo del gruppo tedesco, si affretta a dire che non esistono altri due maggiori gruppi con una tale complementarietà geografica: vero ma da oggi è a Heidelberg che comandano.

A questo punto viene una domanda : ma è mai possibile che le imprese italiane passino di mano sempre a soggetti stranieri e mai succeda il contrario? E parliamo di imprese grosse, di pezzi costitutivi della storia industriale del Paese, in tutti i settori, da Gucci a Bulgari, da Montedison a Pirelli, sino ad Ansaldo Breda e al gioiello Ansaldo STS, leader nel settore della segnaletica ferroviaria, passati ai giapponesi di Hitachi. Dei marchi storici sono rimasti Barilla e Ferrero. Attendiamo con ansia. Per il resto ciò che è rimasto del patrimonio industriale storico italiano da Finmeccanica a Enel ed Eni è a partecipazione pubblica. Telecom, che pure è strategica per il Paese perchè garantisce le comunicazioni, si avvia a diventare francese con Vincent Bollorè, primo azionista. Una vocazione ad essere assorbiti da altri che, anche quando - come Fiat - si è in grado di far valere i diritti di indirizzo del compratore, si fa in modo di ottenere il contrario, e cioè di diventare tutto tranne che restare italiani. La fusione con Chrysler non ha fatto del marchio americano una proiezione di Fiat in America: no, si è voluto il contrario e FCA è infatti quotata a New York, ha la sede giuridica ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. Anche Ferrari, la bandiera dell’automobile da corsa, il marchio per eccellenza del Paese nel mondo, verrà quotata a New York.

Si può capire che la vita imprenditoriale in Italia è dura, un Paese ingessato con un carico burocratico e fiscale enorme. Però si osservano anche realtà industriali dinamiche, piccole e medie imprese che si buttano sul mercato, rischiano e a volte hanno successo per cui l’export italiano è in attivo grazie a loro. Italcementi paga anch’essa il pedaggio di essere italiana. La crisi degli ultimi sette anni ha colpito duro l’edilizia e per un impresa che lavora intensamente nel mercato nazionale questo si sente. Ed è la differenza con il concorrente (adesso acquirente) tedesco che gode invece dei vantaggi di un Paese solido. Poter programmare su basi attendibili con un mercato non in crisi già di per sé dà una posizione di vantaggio. L’Europa tedesca incombe. La resa della grande industria italiana è però fatta in casa e segna il Paese. Se dopo le cessioni, le scelte strategiche delle aziende, ora in mani straniere, dovessero penalizzare nel tempo i posti di lavoro e i luoghi di produzione, saranno i lavoratori stessi a presentare il conto alla classe politica. Ma a quel punto sarà troppo tardi.

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