Auguri a Felice Gimondi:
il campione compie 70 anni

Dipendesse da lui, il 29 settembre sarebbe un giorno come tutti gli altri. E il compleanno lo passerebbe come i tanti che l'hanno preceduto: in famiglia. Ma questa volta è stato diverso: quella per Felice Gimondi è stata una di quelle festa da ricordare. GUARDA LA FOTOGALLERY DELLA FESTA

Dipendesse da lui, il 29 settembre sarebbe un giorno come tutti gli altri. E il compleanno lo passerebbe come i tanti che l'hanno preceduto: in famiglia, davanti alla solita torta (rigorosamente senza creme), con la moglie Tiziana, le figlie Norma e Federica, il genero Maurizio e ora anche il nipotino Davide.

Lui, Felice Gimondi, non è uno che ama le feste. Se appena può, gira alla larga, specie se si tratta di avvenimenti serali. Non c'entra il fatto che gli anni in questione siano 70: sarebbe stata la stessa cosa se fossero stati 40 piuttosto che 50. Però quella di ieri sera è stata una grande festa.

Leggi su L'Eco in edicola sabato 29 settembre la cronaca della grande festa per i 70 anni di Felice Gimondi al Centro congressi la sera di venerdì 28 settembre

Ecco l'intervista che Ildo Serantoni per L'Eco di Bergamo ha fatto al grande campione nei giorni scorsi.

Questa, Gimondi, è una di quelle volte in cui non ne può proprio fare a meno?
«Gli amici Bettineschi e Manenti stanno preparando le cose in grande e gliene sono grato. Significa che il mio nome dice ancora qualcosa anche alle giovani generazioni, oltre a rappresentare un piacevole tuffo nel passato, in mezzo ai ricordi di quanti c'erano quando io correvo in bicicletta. Ringrazio Giovanni e Beppe con tutto il cuore. E ringrazio anche gli amici della Rai, in testa Auro Bulbarelli per la lunga diretta».

Ha parlato di tuffo nel passato. La sua è stata una carriera esemplare: dopo Coppi e Merckx, nel gruppetto che insegue sui tornanti della storia, con Bartali, Anquetil, Hinault, forse Indurain, c'è anche lei. Ne è orgoglioso? O magari ha qualche rimpianto?
«Ne sono più che orgoglioso, perché in quella posizione ci sono arrivato con le mie forze: fisiche e morali. Quanto ai rimpianti, sarebbe fin troppo facile pensare a Merckx. A volte anch'io mi sono chiesto: ma doveva proprio nascere nei miei anni un mostro del genere? Perché è chiaro che il mio albo d'oro sarebbe stato molto più ricco se non avessi avuto fra i piedi quella figura onnivora, che voleva tutto per sé e non ti concedeva niente. Date un'occhiata ai secondi posti e poi sappiatemi dire. Però, se ragiono con obiettività, anche qui prevale l'orgoglio: penso che la mia rivalità con Eddy abbia fatto bene al ciclismo: quegli anni hanno rappresentato, dopo quella di Coppi e Bartali, la migliore stagione di un secolo abbondante di corse. Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno oggi»».

Quindi, proprio nessun rimpianto?
«Nessuno. Anzi, forse uno c'è, legato alle corse ma estraneo alle vicende della strada. Non ero vicino a mia moglie quando è nata Federica, la nostra seconda figlia. Il fatto è che avevo vinto il Mondiale qualche giorno prima ed ero impegnato tutti i giorni. Ebbi la notizia di notte, in Friuli, dove dividevo la camera con Cochise (il colombiano Rodriguez, nda), perché avevamo disputato un circuito e il giorno dopo ci saremmo dovuti trasferire a Roma per il Giro del Lazio. Dopo il Giro del Lazio, mi feci l'intera nottata in macchina e non rientrai nemmeno a casa: puntai diritto all'ospedale per vedere mia figlia e mia moglie».

Lei è rimasto un attento osservatore del ciclismo. Quali sono le differenze rispetto al movimento che aveva trovato lei mezzo secolo fa?
«Il ciclismo non è cambiato nella sua filosofia e non cambierà mai, nel senso che sarà sempre la fatica di un uomo a cavallo di una bicicletta: su una salita, sotto la pioggia, con 40 gradi all'ombra. È cambiato, e molto, tutto ciò che gli gira attorno, a cominciare dalla eccessiva scientificità che disabitua il corridore a dialogare con il proprio corpo. Io, quando correvo, capivo quando entravo in forma, perché dopo una serie di allenamenti ben fatti mi sentivo ricco di energie e pieno di voglia di sfogarmi sui pedali. Oggi, se chiedi a un corridore come sta, di senti rispondere che l'emoglobina è a posto, i valori ematici sono buoni, ma persiste un problema di watt. Tutto, insomma, è affidato agli strumenti, comprese le radioline, mentre c'è la tendenza a trascurare le sensazioni. I corridori vengono radiocomandati, sono spariti l'istinto e la spontaneità. Ma la corsa, accidenti, non è un teorema: è imprevedibilità, viene spesso sconvolta dalle situazioni, sia tecniche sia ambientali. Le sensazioni, credetemi, sono fondamentali».

Rispetto a quando correvate voi, c'è anche la parcellizzazione del calendario, no?
«Altroché. Fino alla generazione di Moser e Saronni, quella successiva alla nostra, si correva tutto l'anno, dalla Sanremo al Lombardia, passando attraverso Giro, Tour, classiche di primavera e Mondiale. Io sapevo già a gennaio che avrei fatto tutte le corse e avrei trovato dappertutto Merckx, De Vlaeminck, Janssen, Godefroot, Altig, Van Springel, Adorni, Bitossi, Motta, Dancelli e tutti i campioni dell'epoca. Questo permetteva ai tifosi di scegliersi il proprio beniamino e fare il tifo per lui. Oggi chi fa il Giro non fa il Tour, chi punta sulla primavera ha già fermato i pedali a fine estate. Siamo arrivati al punto che le stesse classiche del Nord vengono divise in due blocchi: chi corre Wevelgem, Fiandre e Roubaix salta Freccia, Liegi, Amstel. E viceversa. Ci sono campioni che non si affrontano quasi mai nell'arco di una stessa stagione. Caso emblematico quello di Armstrong: o lo sfidavi al Tour, altrimenti non lo vedevi mai».

A proposito di Armstrong...
«Alt, la blocco subito. Ripeto con forza quanto ho detto a caldo: tirare fuori storie di dieci anni prima non ha senso. Armstrong ha corso rispettando le regole, si è sottoposto a tutti i controlli che gli hanno imposto, immagino diverse centinaia, ed è risultato a posto. È l'unica cosa che conta. Il resto appartiene alla insopprimibile vocazione del mondo ciclistico di darsi le martellate sugli zebedei».

Come è il problema doping oggi rispetto ai suoi tempi?
«Il problema doping aveva raggiunto livelli oltre la guardia negli anni Ottanta, quando gli esami di laboratorio non erano in grado di trovare l'Epo. Adesso le cose vanno notevolmente meglio e posso garantire che c'è più pulizia, anche se la guardia va tenuta alta perché le insidie sono tante. Qualche sciocchezza veniva fatta anche cinquant'anni fa, nessuno pretende di passare per santo. Però un conto è una pillola che ti allevia la fatica, un cardiotonico, uno stimolante. Altro il doping ematico che ti cambia la cilindrata. Noi l'ematocrito e l'emoglobina non sapevamo neanche che cosa fossero».

Lei ha sempre annesso una importanza fondamentale, quasi una sacralità, alla famiglia.
«Io non finirò mai di ringraziare le mie famiglie: quella che mi ha cresciuto e quella che ho formato da adulto. Ho detto tante volte, e mi ripeto volentieri, che la mia mamma e il mio papà hanno trasmesso ai miei fratelli e a me i valori veri della vita: lavoro, concordia, educazione, rispetto, spirito di sacrificio. Dalla famiglia che ho formato ho avuto tutto: una moglie, Tiziana, la cui presenza è stata fondamentale. Era ancora una ragazza quando l'ho sposata, ma ha capito subito la particolarità del mio mestiere e mi è stata vicina nel modo giusto, rispettando pazientemente le mie assenze prolungate, confortandomi quando tornavo a casa abbacchiato perché la corsa era andata male, sopportando i miei malumori, attenuando il mio nervosismo alla vigilia di gare particolarmente importanti. Dovrei vivere dieci volte per ripagarla di tutto. Poi ho avuto la fortuna di avere messo al mondo due figlie splendide. E adesso c'è anche un nipotino che mi chiede sempre di poter salire bicicletta: allora lo carico sul seggiolino e gli faccio fare un giretto nel giardino intorno alla casa.

Consiglierebbe al suo nipotino di correre in bicicletta?
«Certo che sì. Però gli direi di cominciare con la mountain-bike: perché ci sono meno pericoli e ci si impratichisce meglio della guida. È quello che sto cercando di fare, insieme a don Mansueto Callioni, con i ragazzi della nostra scuola di ciclismo. Poi, verso i 16 anni, se c'è la passione si può cominciare con le corse su strada. Francamente resto un po' perplesso quando vedo gareggiare i bambini della categoria Giovanissimi, magari stimolati, se non addirittura aizzati, da qualche genitore. Tuttavia, al di là di questi eccessi, è innegabile che la bicicletta sia educativa, perché ti insegna a fare sacrifici, a vincere, perdere, rispettare l'avversario. Se mi concede una frase fatta, la bicicletta e il ciclismo rimangono una scuola di vita».

Ildo Serantoni

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